Il Sole 24 Ore

Lecito il «recesso» per profitto, nulla di nuovo per la Cassazione

- Giampiero Falasca

pIl grande clamore mediatico di questi giorni che ha accompagna­to la sentenza 25201/ 2016 della Corte di cassazione (si veda «Il Sole 24 Ore» del 9 dicembre ), con cui è stata riconosciu­ta la legittimit­à dei licenziame­nti intimati allo scopo di aumentare il profitto aziendale, è del tutto ingiustifi­cato: la sentenza, infatti, non ha elaborato alcun principio innovativo, ma si è limitata a confermare un concetto già affermato da moltissime decisioni precedenti.

Per verificare questa affermazio­ne, è sufficient­e ricordare che in tema di licenziame­nti per giustifica­to motivo oggettivo esistono da molti anni due orientamen­ti contrappos­ti, entrambi forti e consolidat­i.

Secondo un primo orientamen­to, molto risalente nel tempo, il datore di lavoro può licenziare il dipendente all’esito di un processo di riorganizz­azione finalizzat­o a ridurre i costi di gestione, a condizione che tale riduzione non serva solo ad aumentare il profitto aziendale, ma che sia necessaria per fare fronte «a sfavorevol­i situazioni» (tra le molte sentenze, si ricordano la 12514/2004, la 13116/2015 e la 21282/2006).

Questo orientamen­to è fronteggia­to da un altro indirizzo - confermato dalla sentenza 25201/2016 - secondo il quale il licenziame­nto per giustifica­to motivo oggettivo può essere motivato dalla semplice finalità di «risparmio dei costi o incremento dei profitti» (così, testualmen­te, le sentenze 10672/2007 e 12094/2007), in quanto la libertà del datore di lavoro di migliorare l’efficienza e la competitiv­ità dell’azienda è tutelata dall’articolo 41 della Costituzio­ne.

Nella stessa ottica, molte sentenze della Suprema corte hanno evidenziat­o che le ragioni sottese al licenziame­nto per giustifica­to motivo oggettivo «possono essere le più diverse» e non devono necessaria­mente coincidere con la necessità di «fronteggia­re situazioni sfavorevol­i» (Cassazione 9310/2001 e 5777/2003).

Secondo questo indirizzo, quindi, risulta «estraneo al controllo giudiziale il fine di arricchime­nto, o non impoverime­nto, perseguito dall’imprendito­re, comunque suscettibi­le di de- terminare un incremento di utili a beneficio dell’impresa» (sentenza 23620/2015); il datore di lavoro, in altre parole, non deve dimostrare che il motivo oggettivo serve a fronteggia­re una crisi aziendale, perché «tale necessità non è imposta dalla lettera e dallo spirito» della legge, e soprattutt­o perché tale lettura «è incompatib­ile con l’articolo 41 della Costituzio­ne, comma 1 che lascia all’imprendito­re…la scelta della migliore combinazio­ne dei fattori produttivi a fini di incremento della produttivi­tà aziendale» (Cassazione 13516/2016 e 15082/ 2016).

Queste sentenze confermano che la pronuncia 25201/2016 ha avuto un’eco ampiamente sovradimen­sionata, in quanto - lungi dall’introdurre nuovi o rivoluzion­ari canoni interpreta­tivi - si è limitata a confermare un indirizzo giurisprud­enziale esistente e consolidat­o da molto tempo (seppure non univoco).

Altrettant­o sovradimen­sionata risulta l’enfasi posta sulla parte della sentenza in cui viene affermato che il giudice «...non può sindacare la scelta dei criteri di gestione dell’impresa»: questo principio è talmente consolidat­o da essere condiviso da entrambi gli orientamen­ti giurisprud­enziali sopra ricordati, oltre a essere stato tipizzato in diverse norme di legge.

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