La risposta europea che ancora manca
L’intervento pubblico per le banche italiane segna una svolta fondamentale nelle tormentate vicende degli ultimi mesi, ma deve essere l’occasione per un’azione decisa e coordinata a livello nazionale ed europeo. Si è riconosciuto che non sono più praticabili soluzioni puramente di mercato e che averle perseguite per oltre quattro anni mentre i punti di crisi esplodevano nel cuore del tessuto produttivo nazionale (Toscana, Marche, Veneto, Liguria) ha di fatto distrutto patrimonio e soprattutto fatto vacillare la fiducia del pubblico.
Si è trattato di una scelta quasi obbligata, visto che l’Europa ha deciso che ciascun paese deve ristrutturare autonomamente il proprio sistema bancario, muovendosi in una sorta di triangolo delle Bermude fatto di divieto agli aiuti di stato, nuove norme sul bail-in e un’unione bancaria ancora zoppa perché priva di un meccanismo di assicurazione dei depositi a livello pan-europeo. In mancanza di questo, la credibilità della copertura assicurativa è pari a quella del singolo stato sovrano, non dell’intera eurozona. Di conseguenza diviene un fattore che accresce il circolo vizioso fra rischio dei paesi periferici e rischio delle rispettive banche, cioè quello che una ricerca accademica ha definito il diabolic loop.
Le prime mosse spettano all’Italia, che deve usare le risorse disponibili nel modo più efficiente possibile per guidare e spronare le banche in difficoltà nell’azione di ristrutturazione. Il decreto toglie infatti l’ansia della ricapitalizzazione immediata, ma non elimina le molte incognite che ancora gravano sull’equilibrio economico e finanziario delle banche bisognose di intervento, a cominciare dal Monte dei Paschi. Bisogna quindi partire da piani industriali credibili che comporteranno sacrifici non meno dolorosi di quelli previsti prima dell’intervento pubblico.
Un punto cruciale sarà il destino dei crediti dubbi che ormai sono considerati dai mercati e dalle autorità europee (e non è chiaro chi ha sobillato chi) come un peso non più sostenibile.
Èestremamente pericoloso lasciare le singole banche in balìa dei pochi acquirenti oggi disponibili. Il mercato per i cosiddetti non-performing loans (Npl) è un mercato piccolo e non efficiente: lo hanno detto fior di ricerche della Bce e del Fondo monetario. La conseguenza è che i prezzi offerti dalle (poche) società specializzate sono largamente inferiori a quelli cui quei crediti sono inscritti nel bilancio delle banche e comportano quindi consistenti perdite immediate. Ma questo non significa che i bilanci siano troppo ottimisti: seguono infatti i principi internazionali che sono assai severi e riflettono (lo dice la Banca d’Italia) ragionevoli prospettive di recupero. La differenza è invece spiegata dal fatto, che proprio per l’inefficienza e i rischi del mercato degli Npl , gli operatori specializzati richiedono rendimenti molto alti (12-14 per cento) che, applicati a un periodo ragionevolmente lungo, anche per i noti problemi della giustizia italiana, portano a valori attuali molto bassi.
Se le banche dovessero cercare di risolvere il problema singolarmente rischierebbero di andare incontro a perdite consistenti, che finirebbero per richiedere nuove ricapitalizzazioni, facendo ripartire ancora la giostra delle reazioni negative dei mercati e dell’irrigidimento della vigilanza europea, aprendo scenari inquietanti. Non è difficile prevedere difficoltà per la ricapitalizzazione-monstre di Unicredit e comunque mutamenti inquietanti nell’assetto proprietario dell’intero sistema bancario italiano.
Occorre pensare a una soluzione integrata per l’intero sistema bancario, ad esempio con la costituzione di un veicolo (suggerito in recenti paper accademici ma anche dalla stessa Bce nell’ultimo rapporto sulla stabilità finanziaria) per la cartolarizzazione di tutti i crediti dubbi. Con una garanzia (anche parziale) sulla tranche più rischiosa, si possono infatti emettere titoli a tassi ben inferiori a quelli richiesti oggi dagli operatori specializzati e quindi limitare le perdite immediate per le banche ad un livello sopportabile o comunque compatibile con le ricapitalizzazioni precauzionali annunciate. Un veicolo di sistema, in altre parole, che faccia leva sulle risorse pubbliche oggi disponibili, che sono cospicue ma non tali da risolvere di per sé i problemi (siamo ancora ad un decimo di quanto messo in campo dai tedeschi) sia sull’esperienza accumulata da Atlante.
L’ideale sarebbe se questa idea fosse sposata dall’Europa, almeno per i paesi periferici, perché segnerebbe la presa di coscienza del fatto che il problema dei crediti dubbi ha superato da un pezzo la dimensione puramente nazionale. Ma soprattutto a livello europeo quello che è necessario è la chiarezza sui requisiti di capitale, soprattutto nei confronti delle banche di tipo retail, come quelle italiane.
Oggi alle banche europee viene imposto non solo il vincolo delle regole di Basilea, ma anche un altro, superiore, considerato come “guida” e calcolato in modo discrezionale dalla Bce in funzione del particolare profilo di rischio di ciascuna banca, che il mercato ignora. Questo criterio è stato voluto più dalla Commissione europea che dalla stessa Bce, ma oggi deve essere riconsiderato. O va abolito o va reso trasparente, ma così come è ha finora creato solo problemi anche perché ha radicato l’impressione che le grandi banche di investimento francesi e tedesche (a cominciare dall’ultra sottocapitalizzata Deutsche Bank) abbiano un patrimonio adeguato. Se l’Europa non sarà in grado di evitare le discriminazioni ai danni delle banche retail, che sono quelle che sostengono l’attività produttiva e la crescita, l’integrazione monetaria e politica si troverà al centro del fuoco incrociato delle critiche populiste e di quelle che esprimono legittimi interessi produttivi. Almeno nel paese di von Clausewitz dovrebbero capire che è la peggiore posizione tattica possibile.