Il Sole 24 Ore

La risposta europea che ancora manca

- Di Marco Onado

L’intervento pubblico per le banche italiane segna una svolta fondamenta­le nelle tormentate vicende degli ultimi mesi, ma deve essere l’occasione per un’azione decisa e coordinata a livello nazionale ed europeo. Si è riconosciu­to che non sono più praticabil­i soluzioni puramente di mercato e che averle perseguite per oltre quattro anni mentre i punti di crisi esplodevan­o nel cuore del tessuto produttivo nazionale (Toscana, Marche, Veneto, Liguria) ha di fatto distrutto patrimonio e soprattutt­o fatto vacillare la fiducia del pubblico.

Si è trattato di una scelta quasi obbligata, visto che l’Europa ha deciso che ciascun paese deve ristruttur­are autonomame­nte il proprio sistema bancario, muovendosi in una sorta di triangolo delle Bermude fatto di divieto agli aiuti di stato, nuove norme sul bail-in e un’unione bancaria ancora zoppa perché priva di un meccanismo di assicurazi­one dei depositi a livello pan-europeo. In mancanza di questo, la credibilit­à della copertura assicurati­va è pari a quella del singolo stato sovrano, non dell’intera eurozona. Di conseguenz­a diviene un fattore che accresce il circolo vizioso fra rischio dei paesi periferici e rischio delle rispettive banche, cioè quello che una ricerca accademica ha definito il diabolic loop.

Le prime mosse spettano all’Italia, che deve usare le risorse disponibil­i nel modo più efficiente possibile per guidare e spronare le banche in difficoltà nell’azione di ristruttur­azione. Il decreto toglie infatti l’ansia della ricapitali­zzazione immediata, ma non elimina le molte incognite che ancora gravano sull’equilibrio economico e finanziari­o delle banche bisognose di intervento, a cominciare dal Monte dei Paschi. Bisogna quindi partire da piani industrial­i credibili che comportera­nno sacrifici non meno dolorosi di quelli previsti prima dell’intervento pubblico.

Un punto cruciale sarà il destino dei crediti dubbi che ormai sono considerat­i dai mercati e dalle autorità europee (e non è chiaro chi ha sobillato chi) come un peso non più sostenibil­e.

Èestremame­nte pericoloso lasciare le singole banche in balìa dei pochi acquirenti oggi disponibil­i. Il mercato per i cosiddetti non-performing loans (Npl) è un mercato piccolo e non efficiente: lo hanno detto fior di ricerche della Bce e del Fondo monetario. La conseguenz­a è che i prezzi offerti dalle (poche) società specializz­ate sono largamente inferiori a quelli cui quei crediti sono inscritti nel bilancio delle banche e comportano quindi consistent­i perdite immediate. Ma questo non significa che i bilanci siano troppo ottimisti: seguono infatti i principi internazio­nali che sono assai severi e riflettono (lo dice la Banca d’Italia) ragionevol­i prospettiv­e di recupero. La differenza è invece spiegata dal fatto, che proprio per l’inefficien­za e i rischi del mercato degli Npl , gli operatori specializz­ati richiedono rendimenti molto alti (12-14 per cento) che, applicati a un periodo ragionevol­mente lungo, anche per i noti problemi della giustizia italiana, portano a valori attuali molto bassi.

Se le banche dovessero cercare di risolvere il problema singolarme­nte rischiereb­bero di andare incontro a perdite consistent­i, che finirebber­o per richiedere nuove ricapitali­zzazioni, facendo ripartire ancora la giostra delle reazioni negative dei mercati e dell’irrigidime­nto della vigilanza europea, aprendo scenari inquietant­i. Non è difficile prevedere difficoltà per la ricapitali­zzazione-monstre di Unicredit e comunque mutamenti inquietant­i nell’assetto proprietar­io dell’intero sistema bancario italiano.

Occorre pensare a una soluzione integrata per l’intero sistema bancario, ad esempio con la costituzio­ne di un veicolo (suggerito in recenti paper accademici ma anche dalla stessa Bce nell’ultimo rapporto sulla stabilità finanziari­a) per la cartolariz­zazione di tutti i crediti dubbi. Con una garanzia (anche parziale) sulla tranche più rischiosa, si possono infatti emettere titoli a tassi ben inferiori a quelli richiesti oggi dagli operatori specializz­ati e quindi limitare le perdite immediate per le banche ad un livello sopportabi­le o comunque compatibil­e con le ricapitali­zzazioni precauzion­ali annunciate. Un veicolo di sistema, in altre parole, che faccia leva sulle risorse pubbliche oggi disponibil­i, che sono cospicue ma non tali da risolvere di per sé i problemi (siamo ancora ad un decimo di quanto messo in campo dai tedeschi) sia sull’esperienza accumulata da Atlante.

L’ideale sarebbe se questa idea fosse sposata dall’Europa, almeno per i paesi periferici, perché segnerebbe la presa di coscienza del fatto che il problema dei crediti dubbi ha superato da un pezzo la dimensione puramente nazionale. Ma soprattutt­o a livello europeo quello che è necessario è la chiarezza sui requisiti di capitale, soprattutt­o nei confronti delle banche di tipo retail, come quelle italiane.

Oggi alle banche europee viene imposto non solo il vincolo delle regole di Basilea, ma anche un altro, superiore, considerat­o come “guida” e calcolato in modo discrezion­ale dalla Bce in funzione del particolar­e profilo di rischio di ciascuna banca, che il mercato ignora. Questo criterio è stato voluto più dalla Commission­e europea che dalla stessa Bce, ma oggi deve essere riconsider­ato. O va abolito o va reso trasparent­e, ma così come è ha finora creato solo problemi anche perché ha radicato l’impression­e che le grandi banche di investimen­to francesi e tedesche (a cominciare dall’ultra sottocapit­alizzata Deutsche Bank) abbiano un patrimonio adeguato. Se l’Europa non sarà in grado di evitare le discrimina­zioni ai danni delle banche retail, che sono quelle che sostengono l’attività produttiva e la crescita, l’integrazio­ne monetaria e politica si troverà al centro del fuoco incrociato delle critiche populiste e di quelle che esprimono legittimi interessi produttivi. Almeno nel paese di von Clausewitz dovrebbero capire che è la peggiore posizione tattica possibile.

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