La crescita globale c’è, basta saperla vedere
L’integrazione globale corregge le distorsioni della globalizzazione
Il 2016 si è chiuso nel segno dell’ambiguità. C’è una palpabile differenza tra i risultati dell’economia mondiale e i segnali che vengono dalla società e dalla politica, che è facile vedere come premonitori di un futuro meno roseo, secondo al- cuni decisamente plumbeo. L’anno che si è chiuso registra la continuazione di una crescita piuttosto robusta dell’economia planetaria, solo margi- nalmente scalfita nelle previsioni per il 2017, anno al quale i mercati, al momento, sembrano guardare con ottimismo.
La Cina rallenta, ma il suo peso è oggi tale che il suo contributo alla crescita mondiale non è diminuito rispetto a un decennio fa. La ripresa degli Stati Uniti, robusta già da qualche anno, marcia sul filo della piena occupazione, lascito di Obama. Perfino il lento pachiderma Europa manda segnali di vitalità. Angela Merkel può ricordare ai tedeschi che non hanno mai goduto di prosperità pari all’attuale. Non solo: con grande sorpresa di molti, gli eventi “terribili” del 2016 non hanno sinora prodotto le catastrofi date per certe. Brexit, l’elezione di Trump, il temuto referendum italiano sono stati tranquillamente digeriti dalle economie dei Paesi interessati e da quella mondiale. I mercati hanno addirittura festeggiato la vittoria del tycoon immobiliare. La crescita dell’economia mondiale si è dimostrata, sinora, capace di assorbire tre shock esogeni, ciascuno dei quali avrebbe potuto deragliarne il cammino.
Dove stanno, dunque, ambiguità e contraddizione? Lo si capisce osservando che, nella grande maggioranza dei commenti, i dati acquisiti per il 2016 e le previsioni di crescita per l’anno appena iniziato siano dominate dall’ansia per il futuro. In molti osservatori, l’incertezza del domani – indubbiamente cresciuta - colora di grigio l’anno passato sino a proclamarlo nuovo annus horribilis. Come dare loro torto se si guarda ad Aleppo? Ma perché vedere, contro ogni evidenza, l’economia globale come perpetuamente “in crisi”? L’ambiguità dell’anno che si è chiuso sta tutta nel contrasto tra una crescita che non sfigura rispetto al trend secolare e la percezione, in Occidente, di un’eredità negativa che il 2016 lascerebbe all’anno nuovo. È un’eredità complessa, da guardare però senza lenti colorate, né di rosa né di nero.
Più che per risultati economici acquisiti, il 2016 resterà nella storia soprattutto per gli eventi ad alta caratura simbolica che l’hanno punteggiato. Essi si spiegano ciascuno con i caratteri specifici della politica e della società inglese, americana, italiana, ma presi insieme si possono vedere, con buone ragioni, come punto di arrivo di tendenze in atto da anni in Occidente: stanchezza per un processo di globalizzazione mal governato, flussi d’immigrazione, vissuti come minaccia a un modo di vivere prima ancora che ai posti di lavoro, diffusa insofferenza verso le élites consolidate politiche, intellettuali, di censo (ma apparentemente non verso i pochi, ammirati, super miliardari). Sono le tendenze di una storia già vissuta, in Europa e negli Stati Uniti, tra fine Ottocento e inizio Novecento, all’apogeo della prima globalizzazione. Anch’essa distribuì in modo diseguale i benefici di crescita che generava. Paradossalmente, benché nell’Europa di allora (al contrario che negli Stati Uniti) commercio internazionale, migrazioni e movimenti di capitale avessero migliorato, seppur lievemente, l’uguaglianza distributiva, la reazione sociale e politica alla globalizzazione investì entrambe le rive dell’Atlantico. In Europa pesò la forza elettorale della proprietà agraria, colpita dal fiume di grano a buon mercato proveniente da Stati Uniti e Russia, ma essa non sarebbe stata sufficiente a catalizzare le forze protezionistiche senza l’appoggio della parte più qualificata del mondo operaio, minacciato dalla concorrenza industriale e dal ridursi della differenza tra il salario dei lavoratori qualificati e quello dei manovali e braccianti. Oggi come allora, le variabili economiche non bastano a spiegare la reazione che deriva da una società in- vestita troppo rapidamente dal cambiamento, dalla perdita di status sociale indipendentemente da quello economico, dall’irrompere della diversità in equilibri consolidati.
La storia non è però destinata a ripetersi. Dopo la seconda guerra mondiale, il cammino dell’integrazione dell’economia mondiale fu ripreso grazie a un’intensa cooperazione internazionale. Questa è oggi in pericolo ma è anche la strada per la ripresa su basi più solide dell’integrazione globale, garantendone i benefici ma correggendone i difetti. La cooperazione non contraddice l’Am erica first di Trump. Anche Truman ed Eisenhower mettevano l’interesse nazionale al primo posto ma lo vedevano nel lungo periodo. Il Piano Marshall non fu un atto di altruismo americano ma lucida valutazione degli interessi strategici degli Stati Uniti. Così fu per Bretton Woods, per l’impulso americano all’unificazione europea, per il Kennedy round, più recentemente per le conferenze sul clima sino a quella di Parigi. Non è possibile correggere le distorsioni della globalizzazione senza cooperazione internazionale. Il pericolo maggiore che corre il mondo nei prossimi anni è proprio il ridimensionamento della cooperazione, a cominciare da quella sul clima. Essa può essere salvata da quella larga parte dell’opinione pubblica, dell’elettorato, che negli Stati Uniti e in Europa è ancora convinta che correzioni alla globalizzazione possano essere fatte senza mettere l’orologio della storia indietro di settant’anni.
Non vi sono forti ragioni economiche perché i buoni risultati di crescita del 2016 non possano continuare nell’anno che si apre. I pericoli, le contraddizioni, nascono sul piano culturale, sociale, politico, si nutrono dell’incertezza prodotta dalla difficoltà di capire dove ci conducano non solo i difetti della globalizzazione ma anche le ambigue promesse della tecnologia. Solo la cooperazione internazionale, anzitutto in Europa, può ridurre questa incertezza. Il suo fato non è deciso, la prognosi può essere ancora fausta con il sostegno di quella larga parte dell’opinione pubblica che non si lascia sedurre dalle sirene del nazionalismo.