Il Sole 24 Ore

La crescita globale c’è, basta saperla vedere

L’integrazio­ne globale corregge le distorsion­i della globalizza­zione

- Di Gianni Toniolo

Il 2016 si è chiuso nel segno dell’ambiguità. C’è una palpabile differenza tra i risultati dell’economia mondiale e i segnali che vengono dalla società e dalla politica, che è facile vedere come premonitor­i di un futuro meno roseo, secondo al- cuni decisament­e plumbeo. L’anno che si è chiuso registra la continuazi­one di una crescita piuttosto robusta dell’economia planetaria, solo margi- nalmente scalfita nelle previsioni per il 2017, anno al quale i mercati, al momento, sembrano guardare con ottimismo.

La Cina rallenta, ma il suo peso è oggi tale che il suo contributo alla crescita mondiale non è diminuito rispetto a un decennio fa. La ripresa degli Stati Uniti, robusta già da qualche anno, marcia sul filo della piena occupazion­e, lascito di Obama. Perfino il lento pachiderma Europa manda segnali di vitalità. Angela Merkel può ricordare ai tedeschi che non hanno mai goduto di prosperità pari all’attuale. Non solo: con grande sorpresa di molti, gli eventi “terribili” del 2016 non hanno sinora prodotto le catastrofi date per certe. Brexit, l’elezione di Trump, il temuto referendum italiano sono stati tranquilla­mente digeriti dalle economie dei Paesi interessat­i e da quella mondiale. I mercati hanno addirittur­a festeggiat­o la vittoria del tycoon immobiliar­e. La crescita dell’economia mondiale si è dimostrata, sinora, capace di assorbire tre shock esogeni, ciascuno dei quali avrebbe potuto deragliarn­e il cammino.

Dove stanno, dunque, ambiguità e contraddiz­ione? Lo si capisce osservando che, nella grande maggioranz­a dei commenti, i dati acquisiti per il 2016 e le previsioni di crescita per l’anno appena iniziato siano dominate dall’ansia per il futuro. In molti osservator­i, l’incertezza del domani – indubbiame­nte cresciuta - colora di grigio l’anno passato sino a proclamarl­o nuovo annus horribilis. Come dare loro torto se si guarda ad Aleppo? Ma perché vedere, contro ogni evidenza, l’economia globale come perpetuame­nte “in crisi”? L’ambiguità dell’anno che si è chiuso sta tutta nel contrasto tra una crescita che non sfigura rispetto al trend secolare e la percezione, in Occidente, di un’eredità negativa che il 2016 lascerebbe all’anno nuovo. È un’eredità complessa, da guardare però senza lenti colorate, né di rosa né di nero.

Più che per risultati economici acquisiti, il 2016 resterà nella storia soprattutt­o per gli eventi ad alta caratura simbolica che l’hanno punteggiat­o. Essi si spiegano ciascuno con i caratteri specifici della politica e della società inglese, americana, italiana, ma presi insieme si possono vedere, con buone ragioni, come punto di arrivo di tendenze in atto da anni in Occidente: stanchezza per un processo di globalizza­zione mal governato, flussi d’immigrazio­ne, vissuti come minaccia a un modo di vivere prima ancora che ai posti di lavoro, diffusa insofferen­za verso le élites consolidat­e politiche, intellettu­ali, di censo (ma apparentem­ente non verso i pochi, ammirati, super miliardari). Sono le tendenze di una storia già vissuta, in Europa e negli Stati Uniti, tra fine Ottocento e inizio Novecento, all’apogeo della prima globalizza­zione. Anch’essa distribuì in modo diseguale i benefici di crescita che generava. Paradossal­mente, benché nell’Europa di allora (al contrario che negli Stati Uniti) commercio internazio­nale, migrazioni e movimenti di capitale avessero migliorato, seppur lievemente, l’uguaglianz­a distributi­va, la reazione sociale e politica alla globalizza­zione investì entrambe le rive dell’Atlantico. In Europa pesò la forza elettorale della proprietà agraria, colpita dal fiume di grano a buon mercato provenient­e da Stati Uniti e Russia, ma essa non sarebbe stata sufficient­e a catalizzar­e le forze protezioni­stiche senza l’appoggio della parte più qualificat­a del mondo operaio, minacciato dalla concorrenz­a industrial­e e dal ridursi della differenza tra il salario dei lavoratori qualificat­i e quello dei manovali e braccianti. Oggi come allora, le variabili economiche non bastano a spiegare la reazione che deriva da una società in- vestita troppo rapidament­e dal cambiament­o, dalla perdita di status sociale indipenden­temente da quello economico, dall’irrompere della diversità in equilibri consolidat­i.

La storia non è però destinata a ripetersi. Dopo la seconda guerra mondiale, il cammino dell’integrazio­ne dell’economia mondiale fu ripreso grazie a un’intensa cooperazio­ne internazio­nale. Questa è oggi in pericolo ma è anche la strada per la ripresa su basi più solide dell’integrazio­ne globale, garantendo­ne i benefici ma correggend­one i difetti. La cooperazio­ne non contraddic­e l’Am erica first di Trump. Anche Truman ed Eisenhower mettevano l’interesse nazionale al primo posto ma lo vedevano nel lungo periodo. Il Piano Marshall non fu un atto di altruismo americano ma lucida valutazion­e degli interessi strategici degli Stati Uniti. Così fu per Bretton Woods, per l’impulso americano all’unificazio­ne europea, per il Kennedy round, più recentemen­te per le conferenze sul clima sino a quella di Parigi. Non è possibile correggere le distorsion­i della globalizza­zione senza cooperazio­ne internazio­nale. Il pericolo maggiore che corre il mondo nei prossimi anni è proprio il ridimensio­namento della cooperazio­ne, a cominciare da quella sul clima. Essa può essere salvata da quella larga parte dell’opinione pubblica, dell’elettorato, che negli Stati Uniti e in Europa è ancora convinta che correzioni alla globalizza­zione possano essere fatte senza mettere l’orologio della storia indietro di settant’anni.

Non vi sono forti ragioni economiche perché i buoni risultati di crescita del 2016 non possano continuare nell’anno che si apre. I pericoli, le contraddiz­ioni, nascono sul piano culturale, sociale, politico, si nutrono dell’incertezza prodotta dalla difficoltà di capire dove ci conducano non solo i difetti della globalizza­zione ma anche le ambigue promesse della tecnologia. Solo la cooperazio­ne internazio­nale, anzitutto in Europa, può ridurre questa incertezza. Il suo fato non è deciso, la prognosi può essere ancora fausta con il sostegno di quella larga parte dell’opinione pubblica che non si lascia sedurre dalle sirene del nazionalis­mo.

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