«L’eccesso di regole frena il credito»
Gros-Pietro: «L’eccesso di regole europee sul capitale rischia di frenare il credito all’economia reale»
«Rischiamo di entrare in un circolo vizioso: i regolatori si sono impegnati a ridurre la rischiosità delle banche per evitare che andassero a scapito dei cittadini. Ma alzare le asticelle significa allontanare capitali. La salvaguardia della solidità è un obiettivo importante, però se si esagera succede che a parità di capitale disponibile le banche possano fare meno credito». Gian Maria GrosPietro, presidente di Intesa Sanpao- lo, in un colloquio con il Sole 24 Ore, parla di regole e Vigilanza, ma anche del decreto salva-risparmio: «È giustificato che lo Stato intervenga nelle banche perché sono uno snodo fondamentale della produzione della ricchezza nazionale, dunque c’è un interesse pubblico. Ma è necessario che una volta entrato, lo Stato prenda realmente il controllo, compia scelte forti ed esca il prima possibile».
p «Il 2016 ci ha insegnato che la stabilità di per sé non dev’essere un’ossessione»: la Brexit, la vittoria di Trump e l’esito del referendum costituzionale italiano sono stati assorbiti dal mercato in modo meno traumatico del previsto. «Ma alla fine un prezzo da pagare c’è», dice il presidente di Intesa Sanpaolo, Gian Maria Gros-Pietro, a Il Sole 24 Ore. «Senza stabilità non ripartono gli investimenti, quelli veri. E senza gli investimenti la ripresa non sarà mai robusta». Non è un dettaglio neanche per la prima banca italiana, che proprio dieci anni fa faceva il suo debutto a Piazza Affari dopo la fusione tra Intesa e il Sanpaolo: la solidità è da primato in Europa, la redditività anche nonostante un contesto macro che certo non aiuta. Resta il rammarico per le potenzialità che il sistema-Paese possiede ma non riesce a esprimere. Un esempio? «La produttività», dice Gros-Pietro, che è economista industriale. «L’Italia paga il prezzo dei mancati investimenti sul capitale umano, sui macchinari, sull’innovazione. E in questo contesto per un’azienda è difficile lanciare nuovi prodotti, o assumere giovani di valore».
Il 2016, alla fine, che anno è stato?
Meglio di quanto non temessimo qualche mese fa, quando ci sentivamo dire che la crescita da noi stimata dell’1% era utopistica: invece ci siamo vicini, e non è poco in un’Europa che nel suo complesso va peggio del previsto e in cui c’è un Paese, la Germania, che con il suo surplus di 300 miliardi effettua una specie di prelievo costante di sangue all’economia del continente. Come sta l’economia italiana? Pur con tutti i suoi problemi è riuscita ad accelerare rispetto a inizio anno, grazie a una produzione industriale cresciuta più del previsto e a una sostanziale ripresa dei consumi.
Quindi c’è da essere ottimisti per il 2017? Il vostro ufficio studi prevede un Pil a +0,9%.
Calma. Il 2016 ci lascia in eredità un certo abbrivio, ma ora le incognite non mancano. Perché non sono legate solo a dinamiche economiche: penso alle elezioni in Francia, Spagna, Germania e forse anche qui in Italia. In sé non rappresentano una minaccia, ma un fattore d’incertezza. Che per fortuna non sembra penalizzare i consumi, ma gli investimenti sì. E la produttività, così, ne soffre.
Con il decreto salva-risparmio, intanto, il Governo ha provato a dare un messaggio forte al mercato e ai risparmiatori sulla solidità del settore. Che ne pensa del ritorno dello Stato nelle banche?
È giustificato che lo Stato intervenga nelle banche perché sono uno snodo fondamentale della produzione della ricchezza nazionale, dunque c’è un interesse pubblico. Ma è necessario che una vol- ta entrato, lo Stato prenda realmente il controllo, compia scelte forti ed esca il prima possibile.
Professore, giusto vent’anni fa lei è stato nominato presidente dell’Iri con il compito di privatizzarne le controllate: lo Stato può essere un buon azionista?
Il passato dimostra che quando lo Stato prende decisioni importanti raccoglie risultati straordinari: non basta entrare, occorre agire.
Il decreto salva-risparmio mette sul tavolo 20 miliardi. Basteranno?
Le banche vivono della fiducia che sanno trasmettere al mercato circa la loro capacità di di agire con efficacia e in fretta: le risorse saranno sufficienti se si dimostrerà di essere capaci a usarle subito e bene.
Attraverso il credito, un sistema bancario in salute è premessa fondamentale per la ripresa. Ma le regole qui non aiutano.
Rischiamo di entrare in un circolo vizioso: i regolatori si sono impegnati a ridurre la rischiosità delle banche per evitare che andassero a scapito dei cittadini. Ma alzare le asticelle significa allontanare capitali. La salvaguardia della solidità è un obiettivo importante, però se si esagera succede che a parità di capitale disponibile le banche possano fare meno credito. Per aumentare il credito allora serve più capitale, che andrà remunerato con maggiore redditività. Molto difficile vista l’attuale curva dei tassi.
Ma se guardiamo alle novità in arrivo, da Basilea 4 ai principi Ifrs9, l’asticella è destinata ad alzarsi ancora.
Sì, ed è un problema: per il sistema bancario sarà sempre più difficile svolgere il ruolo di sostegno a quello economico; vale soprattutto per l’Europa e l’Italia in particolare, dove oltre il 60% delle risorse delle imprese arriva dalle banche. Senza contare, poi, che non è affatto congruo, come peraltro ha giustamente denunciato il direttore del Sole 24 Ore nei giorni scorsi, che da parte dei regolatori ci sia un’attenzione spasmodica sugli Npl e non sui derivati, che hanno spesso rischi molto più elevati.
Torniamo al credito, dove affonda anche la crisi delle banche italiane: a forza di prestare denaro si sono ritrovate con 85 miliardi di sofferenze nette e a corto di capitale. La lezione è stata imparata?
Molti istituti si sono irrobustiti, ma faticano ad adeguarsi a un mondo sempre più debancarizzato: a tendere dovranno sempre di più porsi come intermediari, che offrono ai propri clienti fondi di debito e l’accesso a canali alternativi al credito. Nel credito le banche dovranno puntare sempre di più sull’origination, e per il resto sulle commissioni.
È quello che sta cercando di fare Intesa Sanpaolo. Continuerà su questa strada?
Stiamo entrando nell’ultimo anno del piano d’impresa, ne andrà concepito un altro ma non spetta a me fare anticipazioni. Quello che vedo è che stiamo andando verso un nuovo business model, e siamo già abbastanza avanti: avevamo previsto di portare al 43% il contributo delle commissioni, e siamo già arrivati al 42. Sappiamo di dover ancora incrementare il contributo del wealth management, soprattutto fuori dall’Italia, come dimostra ad esempio la recente j oint venture in Cina. È un tema che sta particolarmente a cuore agli investitori.
A proposito: guardando al vostro azionariato, negli ultimi mesi sembra essersi ridimensionato l’interesse dei grandi istituzionali per Intesa Sanpaolo. Perché?
Gli investitori sono molto attenti all’andamento della singola impresa, ma anche a quello del mercato in cui opera. Quando si invertirà la prospettiva per l’Italia, anche noi sicuramente ne vedremo gli effetti.
Al momento il mercato è piuttosto negativo sul settore.
Non del tutto. L’eccellente accoglienza del piano di UniCredit è una buona dimostrazione del fatto che l’Italia è attraente. Ci fa gioco. Così come, in quest’ottica, è importante che sia lo Stato a occuparsi delle situazioni di maggior difficoltà.
Gli investitori chiedono aggregazioni, ma in Italia stentano.
Il 2017 è iniziato con il debutto in Borsa di Banco-Bpm, segno di un sistema che si rafforza. In effetti, le dimensioni oggi sono fondamentali per la redditività, e se noi abbiamo potuto raggiungerle è perché siamo stati capaci di un lungo processo di aggregazioni.
Un altro elemento che sta molto a cuore agli investitori, soprattutto esteri, è quello della governance. Intesa Sanpaolo lo scorso anno ha cambiato il suo sistema: qual è il primo bilancio di questi primi otto mesi di lavoro?
È molto importante dare al mercato garanzie a livello di governance. Che si compone di due elementi: l’efficacia e la trasparenza, soprattutto a vantaggio dei soggetti, penso ai fondi, che non vogliono avere il controllo e la gestione della società. È per questo che noi abbiamo cambiato modello, adottandone uno più compatto, che dà molto più spazio agli indipendenti e alla minoranza che ha poteri effettivi. È anche così che pensiamo di essere sempre più attrattivi.
Tra le novità più significative del nuovo modello di governance di Intesa Sanpaolo c’è la funzione di controllo, assegnata all’apposito comitato, interna al consiglio. Funziona? Non è difficile, per un consigliere, svolgere due ruoli diversi?
Sono estremamente soddisfatto, della capacità di penetrazione degli argomenti e della qualità delle discussioni. Tutti i componenti del board partecipano con il giusto apporto: pur nel rispetto dei ruoli, e nella necessaria separatezza del comitato, in consiglio il controllo avviene e si pe percepisce.