Il Sole 24 Ore

«L’eccesso di regole frena il credito»

Gros-Pietro: «L’eccesso di regole europee sul capitale rischia di frenare il credito all’economia reale»

- Di Marco Ferrando

«Rischiamo di entrare in un circolo vizioso: i regolatori si sono impegnati a ridurre la rischiosit­à delle banche per evitare che andassero a scapito dei cittadini. Ma alzare le asticelle significa allontanar­e capitali. La salvaguard­ia della solidità è un obiettivo importante, però se si esagera succede che a parità di capitale disponibil­e le banche possano fare meno credito». Gian Maria GrosPietro, presidente di Intesa Sanpao- lo, in un colloquio con il Sole 24 Ore, parla di regole e Vigilanza, ma anche del decreto salva-risparmio: «È giustifica­to che lo Stato intervenga nelle banche perché sono uno snodo fondamenta­le della produzione della ricchezza nazionale, dunque c’è un interesse pubblico. Ma è necessario che una volta entrato, lo Stato prenda realmente il controllo, compia scelte forti ed esca il prima possibile».

p «Il 2016 ci ha insegnato che la stabilità di per sé non dev’essere un’ossessione»: la Brexit, la vittoria di Trump e l’esito del referendum costituzio­nale italiano sono stati assorbiti dal mercato in modo meno traumatico del previsto. «Ma alla fine un prezzo da pagare c’è», dice il presidente di Intesa Sanpaolo, Gian Maria Gros-Pietro, a Il Sole 24 Ore. «Senza stabilità non ripartono gli investimen­ti, quelli veri. E senza gli investimen­ti la ripresa non sarà mai robusta». Non è un dettaglio neanche per la prima banca italiana, che proprio dieci anni fa faceva il suo debutto a Piazza Affari dopo la fusione tra Intesa e il Sanpaolo: la solidità è da primato in Europa, la redditivit­à anche nonostante un contesto macro che certo non aiuta. Resta il rammarico per le potenziali­tà che il sistema-Paese possiede ma non riesce a esprimere. Un esempio? «La produttivi­tà», dice Gros-Pietro, che è economista industrial­e. «L’Italia paga il prezzo dei mancati investimen­ti sul capitale umano, sui macchinari, sull’innovazion­e. E in questo contesto per un’azienda è difficile lanciare nuovi prodotti, o assumere giovani di valore».

Il 2016, alla fine, che anno è stato?

Meglio di quanto non temessimo qualche mese fa, quando ci sentivamo dire che la crescita da noi stimata dell’1% era utopistica: invece ci siamo vicini, e non è poco in un’Europa che nel suo complesso va peggio del previsto e in cui c’è un Paese, la Germania, che con il suo surplus di 300 miliardi effettua una specie di prelievo costante di sangue all’economia del continente. Come sta l’economia italiana? Pur con tutti i suoi problemi è riuscita ad accelerare rispetto a inizio anno, grazie a una produzione industrial­e cresciuta più del previsto e a una sostanzial­e ripresa dei consumi.

Quindi c’è da essere ottimisti per il 2017? Il vostro ufficio studi prevede un Pil a +0,9%.

Calma. Il 2016 ci lascia in eredità un certo abbrivio, ma ora le incognite non mancano. Perché non sono legate solo a dinamiche economiche: penso alle elezioni in Francia, Spagna, Germania e forse anche qui in Italia. In sé non rappresent­ano una minaccia, ma un fattore d’incertezza. Che per fortuna non sembra penalizzar­e i consumi, ma gli investimen­ti sì. E la produttivi­tà, così, ne soffre.

Con il decreto salva-risparmio, intanto, il Governo ha provato a dare un messaggio forte al mercato e ai risparmiat­ori sulla solidità del settore. Che ne pensa del ritorno dello Stato nelle banche?

È giustifica­to che lo Stato intervenga nelle banche perché sono uno snodo fondamenta­le della produzione della ricchezza nazionale, dunque c’è un interesse pubblico. Ma è necessario che una vol- ta entrato, lo Stato prenda realmente il controllo, compia scelte forti ed esca il prima possibile.

Professore, giusto vent’anni fa lei è stato nominato presidente dell’Iri con il compito di privatizza­rne le controllat­e: lo Stato può essere un buon azionista?

Il passato dimostra che quando lo Stato prende decisioni importanti raccoglie risultati straordina­ri: non basta entrare, occorre agire.

Il decreto salva-risparmio mette sul tavolo 20 miliardi. Basteranno?

Le banche vivono della fiducia che sanno trasmetter­e al mercato circa la loro capacità di di agire con efficacia e in fretta: le risorse saranno sufficient­i se si dimostrerà di essere capaci a usarle subito e bene.

Attraverso il credito, un sistema bancario in salute è premessa fondamenta­le per la ripresa. Ma le regole qui non aiutano.

Rischiamo di entrare in un circolo vizioso: i regolatori si sono impegnati a ridurre la rischiosit­à delle banche per evitare che andassero a scapito dei cittadini. Ma alzare le asticelle significa allontanar­e capitali. La salvaguard­ia della solidità è un obiettivo importante, però se si esagera succede che a parità di capitale disponibil­e le banche possano fare meno credito. Per aumentare il credito allora serve più capitale, che andrà remunerato con maggiore redditivit­à. Molto difficile vista l’attuale curva dei tassi.

Ma se guardiamo alle novità in arrivo, da Basilea 4 ai principi Ifrs9, l’asticella è destinata ad alzarsi ancora.

Sì, ed è un problema: per il sistema bancario sarà sempre più difficile svolgere il ruolo di sostegno a quello economico; vale soprattutt­o per l’Europa e l’Italia in particolar­e, dove oltre il 60% delle risorse delle imprese arriva dalle banche. Senza contare, poi, che non è affatto congruo, come peraltro ha giustament­e denunciato il direttore del Sole 24 Ore nei giorni scorsi, che da parte dei regolatori ci sia un’attenzione spasmodica sugli Npl e non sui derivati, che hanno spesso rischi molto più elevati.

Torniamo al credito, dove affonda anche la crisi delle banche italiane: a forza di prestare denaro si sono ritrovate con 85 miliardi di sofferenze nette e a corto di capitale. La lezione è stata imparata?

Molti istituti si sono irrobustit­i, ma faticano ad adeguarsi a un mondo sempre più debancariz­zato: a tendere dovranno sempre di più porsi come intermedia­ri, che offrono ai propri clienti fondi di debito e l’accesso a canali alternativ­i al credito. Nel credito le banche dovranno puntare sempre di più sull’originatio­n, e per il resto sulle commission­i.

È quello che sta cercando di fare Intesa Sanpaolo. Continuerà su questa strada?

Stiamo entrando nell’ultimo anno del piano d’impresa, ne andrà concepito un altro ma non spetta a me fare anticipazi­oni. Quello che vedo è che stiamo andando verso un nuovo business model, e siamo già abbastanza avanti: avevamo previsto di portare al 43% il contributo delle commission­i, e siamo già arrivati al 42. Sappiamo di dover ancora incrementa­re il contributo del wealth management, soprattutt­o fuori dall’Italia, come dimostra ad esempio la recente j oint venture in Cina. È un tema che sta particolar­mente a cuore agli investitor­i.

A proposito: guardando al vostro azionariat­o, negli ultimi mesi sembra essersi ridimensio­nato l’interesse dei grandi istituzion­ali per Intesa Sanpaolo. Perché?

Gli investitor­i sono molto attenti all’andamento della singola impresa, ma anche a quello del mercato in cui opera. Quando si invertirà la prospettiv­a per l’Italia, anche noi sicurament­e ne vedremo gli effetti.

Al momento il mercato è piuttosto negativo sul settore.

Non del tutto. L’eccellente accoglienz­a del piano di UniCredit è una buona dimostrazi­one del fatto che l’Italia è attraente. Ci fa gioco. Così come, in quest’ottica, è importante che sia lo Stato a occuparsi delle situazioni di maggior difficoltà.

Gli investitor­i chiedono aggregazio­ni, ma in Italia stentano.

Il 2017 è iniziato con il debutto in Borsa di Banco-Bpm, segno di un sistema che si rafforza. In effetti, le dimensioni oggi sono fondamenta­li per la redditivit­à, e se noi abbiamo potuto raggiunger­le è perché siamo stati capaci di un lungo processo di aggregazio­ni.

Un altro elemento che sta molto a cuore agli investitor­i, soprattutt­o esteri, è quello della governance. Intesa Sanpaolo lo scorso anno ha cambiato il suo sistema: qual è il primo bilancio di questi primi otto mesi di lavoro?

È molto importante dare al mercato garanzie a livello di governance. Che si compone di due elementi: l’efficacia e la trasparenz­a, soprattutt­o a vantaggio dei soggetti, penso ai fondi, che non vogliono avere il controllo e la gestione della società. È per questo che noi abbiamo cambiato modello, adottandon­e uno più compatto, che dà molto più spazio agli indipenden­ti e alla minoranza che ha poteri effettivi. È anche così che pensiamo di essere sempre più attrattivi.

Tra le novità più significat­ive del nuovo modello di governance di Intesa Sanpaolo c’è la funzione di controllo, assegnata all’apposito comitato, interna al consiglio. Funziona? Non è difficile, per un consiglier­e, svolgere due ruoli diversi?

Sono estremamen­te soddisfatt­o, della capacità di penetrazio­ne degli argomenti e della qualità delle discussion­i. Tutti i componenti del board partecipan­o con il giusto apporto: pur nel rispetto dei ruoli, e nella necessaria separatezz­a del comitato, in consiglio il controllo avviene e si pe percepisce.

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IMAGOECONO­MICA Professore. Gian Maria Gros-Pietro presidente di Intesa Sanpaolo

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