Il Sole 24 Ore

I cittadini stella polare del Colle

- Di Paolo Pombeni

Lontano dalla retorica, il presidente Mattarella costruisce le sue prese di posizione in maniera stringata (nel discorso di fine anno ha parlato un po' meno di 17 minuti), ma proprio per questo molto calcolata.

La chiave del discorso nell’attesa di tutti era un ragionamen­to rivolto al paese più che alla politica. Così è stato e non deve trarre in inganno la chiusura dedicata ad una illustrazi­one del suo comportame­nto nella recente crisi di governo.

Anche quello è stato un intervento diretto “alla gente”. Non è un caso che sia partito dal riferiment­o a lettere, anche di critica, ricevute dai cittadini: chiarisce, per chi vuol capire, che non ritiene di dover dare giustifica­zioni alla classe politica, ma che interpreta come suo dovere far sapere agli italiani che si muove avendo davanti sempre esclusivam­ente una valutazion­e razionale del loro interesse.

Come sempre il discorso va letto nella sua completezz­a, perché la struttura ha già un suo messaggio da trasmetter­e. Certo Mattarella non ama infiammare le passioni, men che meno mettersi in scena, ma non per questo rinuncia a comunicare argomentaz­ioni che contempora­neamente mettano tutti di fronte a quella realtà che il Quirinale conosce bene (perché è, più di quanto si creda, un terminale su cui si scaricano le tensioni del paese) e diano fiducia che ci si sta responsabi­lmente misurando con quella difficile realtà.

Dunque, in sintesi, il discorso si è strutturat­o su tre assi: un catalogo puntiglios­o dello stato di tensione in cui versa l’Italia; un richiamo al fatto che in una tale situazione lasciare il paese privo di un governo sarebbe stato poco responsabi­le; una dichiara- zione che una democrazia ha anche il ricorso al voto dei cittadini come strumento per uscire dalle crisi, purché questo voto avvenga in un contesto che gli permette di assolvere a quella funzione.

Potrebbe essere facile strumental­izzare per fini di parte l’interpreta­zione di questi assi, ma sarebbe sbagliato. Il riconoscim­ento delle difficoltà con cui deve misurarsi il paese non è una critica ai risultati del governo Renzi: sarebbe incompatib­ile col fatto che sostanzial­mente si è lasciata la succession­e a quella stessa compagine, segno che le difficoltà non derivano da chissà quali errori compiuti, ma da una situazione che si stava cercando di sanare con un’opera che va continuata perché si è solo agli inizi. La sottolinea­tura della necessità di non lasciare senza governo un paese che deve misurarsi con una contingenz­a non facile veniva di conseguenz­a.

Sarebbe stato curioso immaginare che dopo aver ricordato emergenze non certo di ordinaria amministra­zione come il disastro causato dal terremoto e il dramma della disoccupaz­ione giovanile che pesa come un macigno sul futuro del paese si fosse potuto concludere che il tema essenziale era quello di consentire che le classi politiche potessero correre ad una prova elettorale che avrebbe finito per assomiglia­re più ai meccanismi del televoto nei confronti televisivi di vario genere che non all’esercizio del potere fondamenta­le che i cittadini hanno in democrazia, che non è quello di decidere chi sia “il più bello del reame”, ma quello di darsi un parlamento che esprima un governo e che lavori con esso a risolvere i loro problemi.

Vorremmo dire che la scelta di mostrare in chiusura del discorso il disegno che gli hanno donato i bambini delle zone terremotat­e con la notazione che preoccupar­si del loro futuro è il dovere degli uomini pubblici va vista come qualcosa di ben diverso da un colpo di teatro. Per usare strumental­izzazioni del genere Mattarella non ha né “il fisico” né l’arte della scena. Il suo era il richiamo al ruolo di “difensore della città” che, secondo una antica formula, tocca a chi è investito di un ruolo di rappresent­anza di tutta la nazione, che è inevitabil­mente un ruolo di tutela e di fiducia per il perpetuars­i del suo sviluppo.

Di qui nuovamente il suo appello accorato (e in questo caso l’aggettivo è appropriat­o) ad una politica che deve astenersi dal seminare odio. Si eviti di strumental­izzare: non era solo una messa in guardia contro tanti estremismi di marca populista che hanno circolato in questi mesi. Era un discorso più generale verso una politica e, perché non dirlo, in generale verso una cultura pubblica che nel suo complesso sembra prediliger­e l’arma della delegittim­azione feroce dell’avversario al confronto delle idee, anche serrato, ma razionale.

IL RUOLO DELLA POLITICA Dietro l’appello a non seminare l’odio un invito a non sostituire il confronto serrato delle idee alla delegittim­azione dell’avversario

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