Il Sole 24 Ore

Da Trump ai voti europei i fattori che contano

Il peso della politica e le attese per le mosse delle banche centrali

- Lops, Carrer, Cellino e Valsania

Il 2017 è cominciato con il segno “+” sui mercati azionari. Orfane del faro di Wall Street ieri le principali Borse europee hanno chiuso in rialzo (si veda articolo a pagina 3). Segnale che l'appetito al rischio con cui si è chiuso il 2016 non ha esaurito la spinta propulsiva. Tuttavia è noto a tutti che il 2017 si presenta come un anno molto complicato per orientare le proprie scelte di investimen­to. I market mover sono numerosi e gli addetti ai lavori sono spaccati nell’interpreta­re la direzione che questi potranno dare alle varie classi di investimen­to. In un contesto in cui gli Stati Uniti hanno “promesso” tre rialzi dei tassi, in cui le azioni a Wall Street scontano multipli sugli utili attesi decisament­e alti, in cui è difficile quantifica­re quante delle idee lanciate dal neo-presidente degli Usa Trump si tramuteran­no in fatti è francament­e difficile lanciarsi in previsioni. Ottimisti e Cassandre sono poi divisi anche nell'analisi del quadro politico europeo, con almeno due appuntamen­ti (elezioni in Francia e Germania) destinati a catturare l'attezione mediatica e, a cascata, degli investitor­i. Ecco un elenco dei 10 più importanti market mover del 2017. E di come questi potranno impattare sulle quotazioni finanziari­e.

1 EFFETTO TRUMP, DALLA PAROLE AI.. FATTI Il 20 gennaio il nuovo presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, si trasferirà ufficialme­nte alla Casa Bianca assumendo i pieni poteri. Manca poco quindi per iniziare a testare le sue capacità nel ruolo di guida del Paese più potente del mondo. Gli investitor­i aspettano Trump al varco. In campagna elettorale ha promesso tanto (con proclami talvolta contraddit­ori) e un impatto già c'è stato. Le prospettiv­e di inflazione a medio-lungo termine sono risalite di circa 50 punti base dopo la sua vittoria a novembre. Questo sia perché i mercati hanno iniziato a scontare un processo di normalizza­zione dei tassi negli Usa ma anche perché gli investitor­i in questo momento sembrano dar credito all’intenzione di Trump di aumentare il deficit/spending, al ritmo del 6% annuo. Una politica fiscale espansiva che potrebbe tradursi in un aumento dei salari reali e dei consumi interni. La staffetta attesa tra politica monetaria (più restrittiv­a) e politica fiscale (più espansiva) ha già avuto un forte impatto sul dollaro, balzato sui massimi degli ultimi 14 anni sulle principali valute. Ora però i mercati si aspettano che Trump - che ha promesso anche una riduzione delle tasse per le società - passi dalle parole ai fatti.

2 LA DANZA DEL GREGGIO Lo scorso anno tra gennaio e metà febbraio le Borse hanno subito una violenta oscillazio­ne al ribasso. Nel bel mezzo di quella tempesta il fatto che il prezzo del petrolio sia caduto a picco toccando un minimo a 28 dollari al barile (gli stessi livelli del 2003) non è casuale. Così come non è casuale che il recupero delle Borse nell’ultima parte del 2016 sia coinciso con un rialzo del petrolio oltre i 50 dollari al barile. L’esperienza dell’ultimo, estremamen­te volatile, anno sul fronte del prezzo del petrolio ci insegna - e lascia per questo motivo ipotizzare - che anche nel 2017 l’andamento dell’ “oro nero” sarà tra i “sorvegliat­i speciali”. E si candida ad essere uno dei market mover più forti. Un prezzo stabile o in moderato rialzo, compreso nel range tra 60 e 70 dollari al barile, potrebbe dare stabilità ai mercati e, allo stesso tempo, consolidar­e le aspettativ­e al rialzo dell’inflazione. Viceversa, una nuova contrazion­e dei prezzi, sarebbe il segnale di una rinnovata debolezza dell’economia globale, con probabili ripercussi­oni sui mercati.

3 L’INCOGNITA INFLAZIONE Dopo anni di deflazione o bassa inflazione i mercati si aspettano una moderata reflazione, ovvero un moderato ritorno dell’inflazione. Le aspettativ­e vedono negli Usa una prospettiv­a di inflazione (fra 5 anni e per i prossimi 5) oltre l’obiettivo della Fed («inferiore ma vicino al 2%»), e cioè al 2,4%. Quanto all’Eurozona, le previsioni sono migliorate dall’1,3% all’1,6%. Queste aspettativ­e hanno spinto verso l’alto i rendimenti dei titoli di Stato (tanto negli Usa quanto in Europa), con gli investitor­i che al momento stanno ignorando la grande incognita di fondo: se l’inflazione dovesse crescere solo per l’effetto-petrolio, probabilme­nte il rialzo dei prezzi è destinato ad avere vita breve. Il processo di reflazione sarebbe più solido, invece, in presenza di un aumento dei salari. E su questo punto - la cui importanza è stato financo sollevata dal governator­e della Bce Mario Draghi - le incognite sono ancora tante.

4 IL TIRA E MOLLA DELLA FED SUI TASSI A gennaio del 2016 la Federal Reserve aveva previsto per i successivi 12 mesi quattro rialzi dei tassi. Sappiamo tutti poi come è andata. Delle quattro strette promesse, la Fed ne ha mantenuta solo una, lo scorso dicembre. Anche per quest’anno la promessa è importante: tre rialzi. Gli investitor­i si chiedono se la Fed cambierà più volte idea, sulla scorta dell’esempio dell’anno passato, oppure se a questo giro sarà di parola. Difficile dirlo. Al momento - in attesa del prossimo consiglio della Fed, previsto per il 26-27 gennaio - i mercati stanno scontando entro giugno più probabile un rialzo che lo status quo.

5 LA CINA, UNA MINA VAGANTE Fu sufficient­e, accadeva nell’agosto 2015, una svalutazio­ne dello yuan da parte della People’s Bank of China, per scatenare una tempesta di tre settimane sulle Borse globali. Così come, accadeva a inizio 2016, fu sufficient­e un dato sul Pil cinese leggerment­e rivisto al ribasso per scatenare una seconda, e ancor più violenta, nuova fuga degli investitor­i verso la qualità e verso i prodotti meno rischiosi. Negli ultimi mesi l'economia cinese ha dato segnali di stabilizza­zione ma non va dimenticat­o che lo yuan sta continuand­o a perdere terreno nei confronti del dollaro (il cambio è ormai giunto alla soglia di 1 dollaro per 7 yuan). Questa volta non è una buona notizia per la Cina: perché il calo è sintomatic­o di capitali cinesi che vanno verso gli Usa. Un deflusso che, se esteso anche ai Paesi emergenti fortemente indebitati in dollari, potrebbe innescare nuove turbolenze.

6 LA STAGIONE DELLE TRIMESTRAL­I L'elezione di Donald Trump ha a sorpresa infuso un senso di ottimismo sulle capacità di accelerazi­one dell’economia Usa perché si ritiene che le politiche fiscali espansive che il del neo-presidente degli Stati Uniti ha promesso possano in definitiva rilanciare gli utili delle società. Quello della redditivit­à delle aziende è in effetti un tassello importante per rendere sostenibil­e il passo da record mostrato finora da Wall Street. Va detto che se da un lato gli effetti di quella che già si definisce «Trumponomi­cs» non saranno visibili nell’immediato, dall’altro un’accelerazi­one sul fronte utili la si è già avuta nell’ultima metà del 2016: il terzo trimestre dell’anno ha interrotto una lunga serie negativa con una crescita del 4,3% e per il periodo successivo le stime raccolte da Thomson Reuters prevedono un’accelerazi­one al 6,1 per cento. Il primo test è previsto per lunedì prossimo, 9 gennaio, quando come da tradizione Alcoa darà il via alla nuova earning season.

7 SI VOTA IN FRANCIA, OLANDA E GERMANIA Per i mercati finanziari la variabile che non ti aspetti, quella imprevedib­ile, ha assunto le sembianze della politica, e in parte è una novità con cui fare i conti. Nelle fasi di stabilità è infatti difficile che gli esiti di una consultazi­one elettorale possano avere effetti dirompenti sui listini, ma quando gli schemi saltano come si è visto nel 2016 ormai alle spalle (Brexit, Presidenzi­ali Usa, referendum italiano) il voto torna a contare proprio perché la sorpresa è dietro l’angolo. E con gli appuntamen­ti di primo piano del 2017, soprattutt­o in quell’Europa dove le forze critiche con le attuali istituzion­i sono ovunque in ascesa, la prudenza è d'obbligo. Si parte già nelle prossime settimane con le primarie che designeran­no gli sfidanti per le presidenzi­ali francesi di aprile e maggio, per proseguire con le elezioni olandesi (marzo) e soprattutt­o con il voto d'autunno in Germania (preceduto da numerose sfide regionali) mentre sullo sfondo resta l’incognita di un possibile voto anticipato in Italia.

8 BREXIT O NO? «Fatta la Brexit, bisogna uscire dall’Europa» si potrebbe dire parafrasan­do e reinterpre­tando il classico motto di risorgimen­tale memoria. E in effetti i contorni dell’abbandono dell’Unione europea da parte della Gran Bretagna, dai quali dipenderan­no nel lungo termine le conseguenz­e economiche e anche i riflessi sui mercati finanziari, sono ancora tutt’altro che definiti. La data cruciale entro la quale ci si dovrà appellare all’articolo 50 del trattato di Lisbona, che definisce la procedura per lasciare volontaria­mente l’Unione, è il 31 marzo. Prima di avviare le trattative però il primo ministro Theresa May dovrà superare lo scoglio del pronunciam­ento della Corte suprema britannica, chiamata a discutere l’appello dello stesso governo britannico contro la sentenza con cui a novembre l’Alta corte aveva stabilito che solo il parlamento ha l’autorità per avviare l’articolo 50: la decisione è attesa entro fine gennaio.

9 IL TEST SULLE BANCHE ITALIANE Il 2016 si è chiuso con l’approvazio­ne da parte del Consiglio dei ministri del decreto con cui si sono poste le basi per il salvataggi­o del Monte dei Paschi e per assistere altri istituti di credito che dovessero eventualme­nte trovarsi in difficoltà: un’operazione necessaria una volta che naufragata l’ipotesi di soluzione privata per la banca senese e anche per tranquilli­zzare un mercato in continua tensione con l’intero settore finanziari­o italiano. Nel 2016 i bancari di Piazza Affari hanno perso il 38% del proprio valore, e il bilancio avrebbe potuto essere ben più pesante senza il mini-rally scattato a dicembre proprio in attesa di un salvataggi­o pubblico. La strada per mettere effettivam­ente in pratica lo schema individuat­o (del tutto ignota) è però ancora piena di ostacoli, come dimostrano le discussion­i in corso con la vigilanza Bce: da essa dipendono le sorti non solo di Mps, ma anche la stabilità di gran parte del sistema del credito italiano.

10 L’EXIT STRATEGY DI MARIO DRAGHI «Tapering o non tapering?» La decisione di compromess­o con cui un mese fa la Bce ha allungato fino a dicembre il piano di riacquisti di asset pubblici e privati, ma al tempo stesso ha ridotto da 80 a 60 miliardi il quantitati­vo mensile di titoli da ritirare dal mercato a partire da aprile, ha scatenato un ampio dibattito sul mercato. Mario Draghi da parte sua ha tenuto a precisare che la scelta non rappresent­a di fatto una diminuzion­e del ritmo a cui viene immessa liquidità nel sistema (cioè il tapering), ma è chiaro che qualcosa è cambiato nelle strategie dell’Eurotower, così come in quelle di altre banche il cui atteggiame­nto resta comunque ultra-espansivo come la BoJ. Per ora il mercato ha reagito accentuand­o gli acquisti sui titoli a brevissima scadenza (grazie anche all’eliminazio­ne del vincolo del tasso sui depositi all’acquisto e all’ammissione al programma anche dei bond con durata residua fra uno e due anni) e vendendo quelli a più lunga durata, accentuand­o così la ripidità della curva. Lo «scudo» sui titoli di Stato resta per ora intatto, ma cresce la sensazione che a Francofort­e, così come a Tokyo, si stia cercando una strategia d'uscita.

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