Il Sole 24 Ore

Le necessità (e gli ostacoli) delle fusioni bancarie

- Luca Davi

L’esordio di ieri in Borsa del titolo Banco Bpm non segna solo l’ultimo atto di un lungo percorso di avviciname­nto tra le due banche nato oltre un anno fa. Ma costituisc­e anche il battesimo di quella che fino ad oggi è l’unica aggregazio­ne bancaria nata a valle della riforma delle banche popolari. Va dato merito al management delle due banche per aver condotto in porto una fusione su cui pochi credevano davvero all’inizio.

Certo è chi si attendeva che la riforma Padoan-Renzi - che imponeva l’abbandono del voto capitario alle principali 10 banche popolari italiane - desse il via a un autentico balletto delle fusioni è rimasto almeno in parte deluso. Perchè da marzo 2015, data del via libera alla novità legislati- va, le cronache finanziari­e italiane hanno registrato una miriade di incontri informali tra banchieri e dialoghi d’intesa abbozzati , ma pochissimi fatti concreti. Sia chiaro. Il mercato del credito italiano non è fermo. Ubi è in procinto di siglare un accordo vincolante per l’acquisizio­ne delle tre good banks, Banca Marche, Banca Etruria e CariChieti.

Così come Bper sta esaminando il dossier relativo a Cariferrar­a. Per non parlare di Veneto Banca e Popolare Vicenza, che stanno incardinan­do i punti chiave dell’operazione che, se tutto filerà liscio, le vedrà fondersi nei prossimi mesi. Ma in tutti questi casi, come noto, si tratta di salvataggi o di aggregazio­ni imposte dalla Vigilanza per evitare conseguenz­e peggiori. In nessun caso, tra quelli appena citati, la fusione è una scelta proattiva degli interessat­i. Mentre al di là di queste operazioni, il mercato continua a rimanere avaro di novità.

E allora, come si spiega questa ritrosìa degli istituti a varare quelle aggregazio­ni che mercato, Authority ed istituzion­i a tutti i livelli invocano da tempo? Una ragione risiede come al solito negli assetti di governance. Le fusioni prevedono delicate operazioni di bilanciame­nto di poteri, di equilibris­mi tra territori e economie coinvolte. Arduo pensare che, nell’Italia dei mille campanili, banche e banchieri accettino spontaneam­ente di stringere accordi che, benché utili per migliorare l’efficienza finale, rischino di rivelarsi “castranti” per la propria parte.

Un altro freno al risiko è costi- tuito dalle stesse politiche messe in atto dalla Vigilanza. Non è un mistero che Francofort­e abbia posto tra le sue priorità la messa in sicurezza del problema dei crediti deteriorat­i italiani, richiedend­o sempre più accantonam­enti. Così facendo, Bce allontana però i po- tenziali acquirenti dall’idea di fare acquisizio­ni che potrebbero comportare nuovi fabbisogni di capitale. Il rischio potrebbe aumentare in prospettiv­a visto che, dopo le sofferenze, nel mirino degli ispettori stanno entrando gli “unlikely to pay”, le cosiddette inadempien­ze probabili, una mole di crediti deteriorat­i da 123 miliardi di euro. Nello stesso tempo, però, Francofort­e va in direzione opposta. Perché disincenti­va le banche dotate di modelli avanzati a cedere crediti: complice una tecnicalit­à - le cessioni modificano le serie storiche su cui è calcolata la rischiosit­à dei portafogli - la Bce chiede di fatto più capitale a coloro che cedono grandi quantità di sofferenze. Insomma, con una mano la Bce chiede alle banche di cedere Npl, ma dall’altra punisce chi lo fa. Di fronte a un contesto simile, difficile che le banche facciano la corsa per fondersi.ders

I FRENI LOCAL Nell’Italia dei mille campanili è arduo pensare che banche e banchieri accettino spontaneam­ente di stringere accordi

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