Le necessità (e gli ostacoli) delle fusioni bancarie
L’esordio di ieri in Borsa del titolo Banco Bpm non segna solo l’ultimo atto di un lungo percorso di avvicinamento tra le due banche nato oltre un anno fa. Ma costituisce anche il battesimo di quella che fino ad oggi è l’unica aggregazione bancaria nata a valle della riforma delle banche popolari. Va dato merito al management delle due banche per aver condotto in porto una fusione su cui pochi credevano davvero all’inizio.
Certo è chi si attendeva che la riforma Padoan-Renzi - che imponeva l’abbandono del voto capitario alle principali 10 banche popolari italiane - desse il via a un autentico balletto delle fusioni è rimasto almeno in parte deluso. Perchè da marzo 2015, data del via libera alla novità legislati- va, le cronache finanziarie italiane hanno registrato una miriade di incontri informali tra banchieri e dialoghi d’intesa abbozzati , ma pochissimi fatti concreti. Sia chiaro. Il mercato del credito italiano non è fermo. Ubi è in procinto di siglare un accordo vincolante per l’acquisizione delle tre good banks, Banca Marche, Banca Etruria e CariChieti.
Così come Bper sta esaminando il dossier relativo a Cariferrara. Per non parlare di Veneto Banca e Popolare Vicenza, che stanno incardinando i punti chiave dell’operazione che, se tutto filerà liscio, le vedrà fondersi nei prossimi mesi. Ma in tutti questi casi, come noto, si tratta di salvataggi o di aggregazioni imposte dalla Vigilanza per evitare conseguenze peggiori. In nessun caso, tra quelli appena citati, la fusione è una scelta proattiva degli interessati. Mentre al di là di queste operazioni, il mercato continua a rimanere avaro di novità.
E allora, come si spiega questa ritrosìa degli istituti a varare quelle aggregazioni che mercato, Authority ed istituzioni a tutti i livelli invocano da tempo? Una ragione risiede come al solito negli assetti di governance. Le fusioni prevedono delicate operazioni di bilanciamento di poteri, di equilibrismi tra territori e economie coinvolte. Arduo pensare che, nell’Italia dei mille campanili, banche e banchieri accettino spontaneamente di stringere accordi che, benché utili per migliorare l’efficienza finale, rischino di rivelarsi “castranti” per la propria parte.
Un altro freno al risiko è costi- tuito dalle stesse politiche messe in atto dalla Vigilanza. Non è un mistero che Francoforte abbia posto tra le sue priorità la messa in sicurezza del problema dei crediti deteriorati italiani, richiedendo sempre più accantonamenti. Così facendo, Bce allontana però i po- tenziali acquirenti dall’idea di fare acquisizioni che potrebbero comportare nuovi fabbisogni di capitale. Il rischio potrebbe aumentare in prospettiva visto che, dopo le sofferenze, nel mirino degli ispettori stanno entrando gli “unlikely to pay”, le cosiddette inadempienze probabili, una mole di crediti deteriorati da 123 miliardi di euro. Nello stesso tempo, però, Francoforte va in direzione opposta. Perché disincentiva le banche dotate di modelli avanzati a cedere crediti: complice una tecnicalità - le cessioni modificano le serie storiche su cui è calcolata la rischiosità dei portafogli - la Bce chiede di fatto più capitale a coloro che cedono grandi quantità di sofferenze. Insomma, con una mano la Bce chiede alle banche di cedere Npl, ma dall’altra punisce chi lo fa. Di fronte a un contesto simile, difficile che le banche facciano la corsa per fondersi.ders
I FRENI LOCAL Nell’Italia dei mille campanili è arduo pensare che banche e banchieri accettino spontaneamente di stringere accordi