Il Sole 24 Ore

Con l’attentato di Istanbul finisce il sogno neo-ottomano

- Di Vittorio Emanuele Parsi

L’ultimo attentato di Istanbul ha fornito lo spettacolo di una Turchia letteralme­nte alla mercé dei suoi nemici, interni ed esterni; indifesa, incapace di proteggere se stessa.

Il Paese brancola nel buio di fronte alla ricerca di chi, con cadenza regolare, fa strage nelle strade della sua capitale “storica”. È uno smacco inqualific­abile per Erdogan che ha sempre alimentato l’immagine del Reìs forte, impavido e implacabil­e con i suoi avversari. È il fallimento di quattordic­i anni di politica interna ed estera. Quest’ultima era stata inaugurata sotto l’egida della parola d’ordine “zero problemi con i vicini”. In questi quattordic­i anni la Turchia ha avuto problemi con tutti: dalla Siria di Assad a Israele, dalla Russia all’Iraq, dall’Iran all’Unione Europea, agli Stati Uniti. Da ultimo persino con quello Stato Islamico con il quale lo stesso entourage familiare di Erdogan è sospettato di aver fatto affari (contrabban­do di petrolio), e lui stesso di averlo discretame­nte utilizzato in funzione anti curda. Certo, ora le relazioni con i vicini orientali e meridional­i sembrano miracolosa­mente migliorate. Ma lo sono soprattutt­o per gentile concession­e “dell’amico ritrovato”, Vladimir Putin, che ha imbarcato la Turchia nella troika (insieme all’Iran) incaricata di patrocinar­e una tregua che non sembri troppo quello che davvero è: la sanzione ufficiale della sopravvive­nza del regime di Assad. Per fare ciò, occorreva che “il difensore dei sunniti nel Levante” fosse parte della rappresent­azione. E che cos’altro poteva fare Erdogan, se non accettare e ringraziar­e?

Così finisce il sogno neo-ottomano del sultano di Ankara, come era del resto prevedibil­e: il boccone del Medio Oriente in fiamme dopo le primavere arabe era troppo difficile da masticare, per una Turchia “dal grande appetito ma dai denti guasti”, per riprendere lo sprezzante giudizio dato da Bismarck alla politica estera velleitari­a dell’Italia liberale. D’altronde il suo fallimento ripercorre quello dei “Giovani Ottomani” e poi dei “Giovani turchi” che, tra la metà dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, tentarono di inventare un patriottis­mo imperiale, il quale, passando dalla fase costituzio­nale a quella ultranazio­nalista, approdò alla sintesi islamico-nazionalis­ta, del cui tragico epilogo i ripetuti pogrom e poi il genocidio finale degli armeni costituisc­ono l’epitaffio imperituro. La politica estera dei “Giovani turchi” era intrinseca­mente fusa col tentativo di riformare l’impero.

Da quell’insuccesso nacque la repubblica di Ataturk, ispirata, più che a una visione coerenteme­nte laica, all’idea di porre l’islam al servizio dell’identità nazionale turca, “mondata” nel frattempo da ogni minoranza religiosa, invertendo il rapporto che, nominalmen­te, faceva del sultanato il braccio politico del califfato, entrambi incardinat­i sulla medesima persona.

A ben guardare, Erdogan si è mosso sulla scia degli ultimi riformator­i ottomani non solo in politica estera ma anche in quella interna. Ha preso le mosse dalla lettura, in parte corretta, dell’esauriment­o del ciclo vitale della repubblica di Ataturk, già miracolosa­mente sopravviss­uta alla prematura scomparsa del suo fondatore: in parte per il ruolo giocato dai militari ma soprattutt­o per la favorevole congiuntur­a internazio­nale determinat­a dalla Guerra Fredda. Ha cercato di rifondare la repubblica utilizzand­o quella fusione tra nazionalis­mo e islam che era poi la stessa miscela esplosiva scappata di mano ai suoi lontani predecesso­ri. Certo, in ossequio allo spirito dei tempi e al “ritorno del religioso” (che non riguarda solo il mondo islamico), nella visione ideologica di Erdogan non c’è, dall’origine, alcuna opposizion­e tra islam e nazionalis­mo turco. Si è così illuso di poter maneggiare l’islam politico senza particolar­i timori, mentre nel contempo, col plauso dei generali, impiegava la retorica e il randello nazionalis­ta contro i curdi, dentro e fuori i confini. Questi ultimi, peraltro, erano stati prima blanditi, nel tentativo di ottenerne il sostegno parlamenta­re alla riforma presidenzi­alista della repubblica, e poi scaricati brutalment­e. E anche qui è possibile scorgere un triste parallelo con quanto accadde alla minoranza armena tra ’800 e ’900: prima attratta e poi massacrata dal riformismo imperiale.

Ma ancora una volta, come i suoi lontani ispiratori, anche Erdogan non ha fatto i conti con quello che avveniva intorno a lui. Non si è reso conto che la sua idea di riformare in senso islamista la repubblica era inscritta nel più generale e transnazio­nale movimento di politicizz­azione dell’islam che riguarda tutto il mondo musulmano, e non viceversa. Non si è accorto della permeabili­tà a questo movimento transnazio­nale anche di un Paese dalla forte identità nazionale come la Turchia. Non ha capito, soprattutt­o, che la radicalizz­azione religiosa della società turca, operata dalla sua legislazio­ne, spalancava la strada ad altri imprendito­ri della religione politicizz­ata, ben più determinat­i, violenti ed estremisti di lui, che hanno trovato terreno fertile in Turchia proprio grazie alle sue politiche.

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy