Con l’attentato di Istanbul finisce il sogno neo-ottomano
L’ultimo attentato di Istanbul ha fornito lo spettacolo di una Turchia letteralmente alla mercé dei suoi nemici, interni ed esterni; indifesa, incapace di proteggere se stessa.
Il Paese brancola nel buio di fronte alla ricerca di chi, con cadenza regolare, fa strage nelle strade della sua capitale “storica”. È uno smacco inqualificabile per Erdogan che ha sempre alimentato l’immagine del Reìs forte, impavido e implacabile con i suoi avversari. È il fallimento di quattordici anni di politica interna ed estera. Quest’ultima era stata inaugurata sotto l’egida della parola d’ordine “zero problemi con i vicini”. In questi quattordici anni la Turchia ha avuto problemi con tutti: dalla Siria di Assad a Israele, dalla Russia all’Iraq, dall’Iran all’Unione Europea, agli Stati Uniti. Da ultimo persino con quello Stato Islamico con il quale lo stesso entourage familiare di Erdogan è sospettato di aver fatto affari (contrabbando di petrolio), e lui stesso di averlo discretamente utilizzato in funzione anti curda. Certo, ora le relazioni con i vicini orientali e meridionali sembrano miracolosamente migliorate. Ma lo sono soprattutto per gentile concessione “dell’amico ritrovato”, Vladimir Putin, che ha imbarcato la Turchia nella troika (insieme all’Iran) incaricata di patrocinare una tregua che non sembri troppo quello che davvero è: la sanzione ufficiale della sopravvivenza del regime di Assad. Per fare ciò, occorreva che “il difensore dei sunniti nel Levante” fosse parte della rappresentazione. E che cos’altro poteva fare Erdogan, se non accettare e ringraziare?
Così finisce il sogno neo-ottomano del sultano di Ankara, come era del resto prevedibile: il boccone del Medio Oriente in fiamme dopo le primavere arabe era troppo difficile da masticare, per una Turchia “dal grande appetito ma dai denti guasti”, per riprendere lo sprezzante giudizio dato da Bismarck alla politica estera velleitaria dell’Italia liberale. D’altronde il suo fallimento ripercorre quello dei “Giovani Ottomani” e poi dei “Giovani turchi” che, tra la metà dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, tentarono di inventare un patriottismo imperiale, il quale, passando dalla fase costituzionale a quella ultranazionalista, approdò alla sintesi islamico-nazionalista, del cui tragico epilogo i ripetuti pogrom e poi il genocidio finale degli armeni costituiscono l’epitaffio imperituro. La politica estera dei “Giovani turchi” era intrinsecamente fusa col tentativo di riformare l’impero.
Da quell’insuccesso nacque la repubblica di Ataturk, ispirata, più che a una visione coerentemente laica, all’idea di porre l’islam al servizio dell’identità nazionale turca, “mondata” nel frattempo da ogni minoranza religiosa, invertendo il rapporto che, nominalmente, faceva del sultanato il braccio politico del califfato, entrambi incardinati sulla medesima persona.
A ben guardare, Erdogan si è mosso sulla scia degli ultimi riformatori ottomani non solo in politica estera ma anche in quella interna. Ha preso le mosse dalla lettura, in parte corretta, dell’esaurimento del ciclo vitale della repubblica di Ataturk, già miracolosamente sopravvissuta alla prematura scomparsa del suo fondatore: in parte per il ruolo giocato dai militari ma soprattutto per la favorevole congiuntura internazionale determinata dalla Guerra Fredda. Ha cercato di rifondare la repubblica utilizzando quella fusione tra nazionalismo e islam che era poi la stessa miscela esplosiva scappata di mano ai suoi lontani predecessori. Certo, in ossequio allo spirito dei tempi e al “ritorno del religioso” (che non riguarda solo il mondo islamico), nella visione ideologica di Erdogan non c’è, dall’origine, alcuna opposizione tra islam e nazionalismo turco. Si è così illuso di poter maneggiare l’islam politico senza particolari timori, mentre nel contempo, col plauso dei generali, impiegava la retorica e il randello nazionalista contro i curdi, dentro e fuori i confini. Questi ultimi, peraltro, erano stati prima blanditi, nel tentativo di ottenerne il sostegno parlamentare alla riforma presidenzialista della repubblica, e poi scaricati brutalmente. E anche qui è possibile scorgere un triste parallelo con quanto accadde alla minoranza armena tra ’800 e ’900: prima attratta e poi massacrata dal riformismo imperiale.
Ma ancora una volta, come i suoi lontani ispiratori, anche Erdogan non ha fatto i conti con quello che avveniva intorno a lui. Non si è reso conto che la sua idea di riformare in senso islamista la repubblica era inscritta nel più generale e transnazionale movimento di politicizzazione dell’islam che riguarda tutto il mondo musulmano, e non viceversa. Non si è accorto della permeabilità a questo movimento transnazionale anche di un Paese dalla forte identità nazionale come la Turchia. Non ha capito, soprattutto, che la radicalizzazione religiosa della società turca, operata dalla sua legislazione, spalancava la strada ad altri imprenditori della religione politicizzata, ben più determinati, violenti ed estremisti di lui, che hanno trovato terreno fertile in Turchia proprio grazie alle sue politiche.