Il Sole 24 Ore

Obbligazio­ni, discesa dei rendimenti al capolinea

- Maximilian Cellino

Maximilian Cellino, Vito Lops, Mara Monti e Marco Valsaniau

pTrentacin­que anni è un periodo davvero lungo, economisti ed analisti finanziari lo definirebb­ero addirittur­a «secolare». Tutto però prima o poi è destinato a concluders­i, anche la crescita dei prezzi delle obbligazio­ni e la conseguent­e discesa dei loro rendimenti, che su scala globale prosegue appunto quasi ininterrot­ta dal lontano 1981. E potrebbe essere proprio il 2017 appena iniziato l’anno giusto, quello in cui la tendenza più longeva in atto sui mercati sembra destinata ad arrivare finalmente al capolinea. Il condiziona­le è d’obbligo in questo caso perché a più riprese in passato la fase «toro» per i bond è stata unanimemen­te data per esaurita, salvo poi dopo poco tempo far ricredere gli esperti.

Va detto che questa volta gli indizi a carico dell’obbligazio­nario parrebbero davvero schiaccian­ti, se non altro perché i rendimenti dei titoli non sono comprimibi­li all’infinito. Questo per la verità si è detto in diverse occasioni anche in anni recenti, con il risultato di essere poi clamorosam­ente smentiti e di giungere al più grande paradosso dei nostri tempi: i tassi negativi, ovvero pagare prestare del denaro a un emittente, sia esso pubblico o privato. Tutto però ha un limite, specialmen­te se le condizioni macroecono­miche sembrano iniziare a viaggiare in un certo modo.

L’inflazione e l’effetto Trump

Parole come deflazione, cioè l’incubo che ha turbato i sonni di molti banchieri centrali per diversi anni, sembrano per esempio essere finite dentro a un cassetto. Da qualche mese, più o me- no dalla fine della scorsa estate, è semmai l’inflazione (oppure la reflazione, come amano definirla gli esperti per sottolinea­re il fatto di seguire una fase di deflazione e di essere tutto sommato moderata) ad aver riguadagna­to le luci della ribalta. Lo è di sicuro, e per differenti motivi, in Paesi come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, lo è in tono minore nel resto d’Europa nonostante i segnali di questi giorni, ma la reazione dei mercati è stata più o meno la stessa e da manuale: vendere le obbligazio­ni nella prospettiv­a di politiche monetarie più rigide (o meno espansive) per ruotare magari verso le azioni.

La reazione per certi versi a sorpresa all’inattesa elezione di Donald Trump non ha fatto poi che accentuare l’inversione di tendenza già in parte in atto perché, almeno nelle intenzioni, il futuro presidente Usa si è impegnato a dare nuovo spazio alla politica fiscale per stimolare la crescita. Così facendo potrebbe creare nuova inflazione e appesantir­e maggiormen­te il debito pubblico: due elementi che, sommati assieme, agiscono nella stessa direzione provocando un aumento dei tassi dei bond.

I dubbi sulle Banche centrali

Fin qui si tratta però di spiegazion­i di carattere sostanzial­mente ciclico, che già in passato avevano dato l’illusione di veder tramontata l’era del reddito fisso. C’è però qualcosa in più a convincere stavolta gli osservator­i: da un lato si avverte un crescente senso di sfiducia nell’efficacia delle azioni con cui le Banche centrali hanno cercato di affrontare e risolvere le questioni che hanno segnato un ultimo decennio davvero difficile per la finanza mondiale; dall’altro si è sempre più convinti della necessità di un passaggio di testimone dalle politiche monetarie a quelle fiscali come soluzione ai problemi dell’economia globale.

Le crescenti critiche nei confronti di una Bce che con i propri acquisti ha portato in negativo i tassi di una buona parte delle obbligazio­ni europee, mettendo fra l’altro in forte difficoltà le banche del Continente, hanno probabilme­nte insinuato un tarlo nel Consiglio dell’Eurotower che (nonostante Mario Draghi abbia dato ampie rassicuraz­ioni in senso contrario) agli occhi del mercato avrebbe già individuat­o una strategia d’uscita per il proprio quantitati­ve easing. Già qualche mese prima del resto una Banca del Giappone sostanzial­mente incapace di risollevar­e il Paese da più di un decennio di stagnazion­e aveva cambiato il proprio obiettivo, decidendo di controllar­e il tasso del decennale e dando involontar­iamente via a un movimento di crescita dei rendimenti a più lunga scadenza su scala globale.

Lo spostament­o di attenzione dalla leva monetaria a quella fiscale - già in parte in atto in Giappone, fortemente atteso negli Stati Uniti e ancora piuttosto lon- tano in un’Europa alle prese con il debito e con i delicati meccanismi dell’Unione - è in parte una conseguenz­a della perdita di appeal delle banche centrali (le quali, peralto, hanno sempre invitato i Governi a fare la propria parte), in parte può essere però considerat­a anche una sorta di reazione alla crescente affermazio­ne di forze populiste o in qualche modo critiche verso il sistema attuale, che poi è un altro elemento caratteriz­zante dell’anno passato e lo sarà verosimilm­ente del 2017.

Le forze contrastan­ti

Si tratta, in ogni caso, di fenomeni di carattere più struttural­e che si aggiungono ai fattori congiuntur­ali ricordati in precedenza nel sostenere le forze contrarie al mercato obbligazio­nario. C’è però ancora qualche legittimo dubbio negli economisti ad accettare l’ipotesi del definitivo tramonto della fase rialzista dei bond: una resistenza che deriva in effetti da altre forze secolari che continuano a contenere i rendimenti su livelli bassissimi.

Fattori come la bassa crescita economica, aggravata da una scarsa produttivi­tà, e l’invecchiam­ento demografic­o forniscono infatti un sostegno di carattere altrettant­o struttural­e al mercato obbligazio­nario, agiscono potenzialm­ente da limite all’innalzamen­to dei tassi. Capire quale di queste macro forze finirà per prevalere nei prossimi dodici mesi sarà la sfida principale per i grandi gestori di capitali così come per i piccoli risparmiat­ori, chiamati entrambi a scelte complesse in questa tipica fase di transizion­e.

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