Solidarietà modello Milano
Istituzioni, associazioni e volontari insieme per garantire pasti e docce caldi
Milano ti dà una mano. È sull’immigrazione che la ex capitale morale mostra un volto di cui forse non è del tutto consapevole: dal glamour del quadrilatero della moda all’accoglienza dei migranti in fuga da guerre e carestie. Due modi neppure così dissimili di esercitare la medesima visione estetica di sé e del mondo.
La metamorfosi ha una data di inizio (18 ottobre 2013), un luogo fisico (i mezzanini della stazione centrale ricolmi di famiglie siriane ed eritree), una paternità e una maternità: il Comune di Milano che, incurante della propaganda leghista antimigranti, rompe gli indugi e assume in prima persona la regia delle iniziative per la prima assistenza, l’accoglienza e lo smistamento dei flussi. La storia è dalla parte di Giuliano Pisapia. Entrando in via Sammartini 120, il labirinto di cunicoli che si estende sotto la stazione centrale, riecheggiano le parole di Fratel Ettore, il camilliano e gigante della carità che negli stessi luoghi dove in questi mesi torme di ragazzini eritrei, afgani e nigeriani si accalcano sui tavoli seminati di prese elettriche e grovigli di smartphone, offriva una doccia calda e un letto ai barbùn che nella seconda metà del ’900 popolavano la Milano da bere.
Fratel Ettore è il pioniere, la madre Teresa di Calcutta milanese. Alberto Sinigallia, il capo della cooperativa Arca - il braccio armato del Comune in materia di ospitalità dei migranti - è dal prete camilliano che apprende i rudimenti di una regola cristiana (dare da bere agli assetati) che la laicissima e manzoniana Milano fa sua perché sui principi fondanti di una comunità le regole laiche e cristiane sfumano e si allineano fino a diventare la stessa cosa.
Il pensiero laico, prima delle parole, obbliga a citare opere e numeri. Da quel 18 ottobre in cui la cosmopolita Milano si svegliò un po’ più siriana e più eritrea, sono passati 118mila migranti di cui 23.500 bambini accompagnati. I Paesi da cui arrivano ricompongono la mappa geopolitica della disintegrazione mediorientale e del Corno d’Africa: 48,4% siriani e 33,9% eritrei. Al quinto e sesto posto Somalia ed Etiopia, preceduti da palestinesi e sudanesi. I numeri e la geografia dei conflitti smentiscono che i migranti siano villeggianti in cerca di svago. E in via Sammartini, che allo stesso tempo è un hub e un centro di accoglienza, sfilano una serie infinita di volti imberbi, ragazzini e molte ragazzine approdati sotto un fascio di binari in cerca di pace e di una chance. Ad accoglierli i volontari di molte associazioni cittadine e Ong: Save the children, Terre des hommes, l’Albero della Vita. Poi ci sono i milanesi, molti pensionati, tanti professori di liceo in pensione, che si mettono diligentemente in coda: sono a disposizione della loro città, i riservisti che ogni metropoli deve poter reclutare nel giro di qualche giorno se secoli di storia non sono aria fritta. Maria Luisa, prof di lettere in pensione dell’Itt Gentileschi, è la voce narrante di un fiume umano passato davanti ai suoi occhi. Se ne sta con lo sguardo vispissimo in un box dal quale controlla tutti e cita a memoria i nomi di famiglie che ora vivono in Germania e Francia. Tina Regazzo, strettissima collaboratrice di Sinigallia dell’Arca, la conosce bene. «Maria Luisa, mi raccomando, non confligga», la esorta. Ma lei risponde a tono, quasi risentita: «Sono una prof: se è necessario, confliggo eccome».
Quel fiume umano e dolente è portatore delle pulsioni del mondo e qualche malattia: disturbi mentali, scabbia, tubercolosi. I volontari sono lesti a individuare chi sta male. E lo affidano ai medici dell’Asl che qui stazionano dal mattino alla sera. Altra regola aurea: massima informazione sui loro diritti: all’hub di Sammartini si può rimanere al massimo sette giorni, poi la legge stabilisce che si debba essere trasferiti nei centri di accoglienza. Milano e la Prefettura ne hanno allestiti 13. Di alcuni luoghi, come le scuole di via Aldini e via Mambretti, il Comune ignorava persino l’esistenza. Il crollo delle nascite ne aveva consigliato la chiusura e da allora erano rimaste in attesa di una destinazione d’uso.
Il 2013 ha resuscitato anche pezzi di memorie collettive seppellite. E ha mobilitato energie che sono la solita combinazione laica e cattolica, un’armata che va dalle cooperative sociali ai Fratelli di San Francesco.
Nessuno pensi che sia stata una passeggiata. Per soccorrere i migranti ci vogliono braccia robuste e stomaci forti. “La Tina” racconta di sistematici lavori di manutenzione straordinari: «I sanitari vanno sostituiti una volta al mese». Agli arredamenti ci ha pensato Ikea e i volontari curano la mensa che mette in tavola 652 persone al giorno. Sono pranzi frugali. Ieri a mezzogiorno c’erano spaghetti al pomodoro, una ricottina, yogurt e frutta.
Islam, un ragazzino egiziano di 15 anni, si gode il sole gelido di Milano accovacciato davanti l’ingresso della mensa. È partito solo da un paesino a sud di Assuan. Che mestiere vuoi fare, gli chiede Yousef, il mediatore palestinese? Lui si taglia le braccia come se avesse un bisturi in mano: «Il chirurgo», dice sorridendo.
All’ex Cie di via Corelli le ambizioni sono più contenute. I francesi di Gepsa che hanno vinto l’appalto organizzano corsi di muratori, panettieri, estetiste, badanti. Su 482 ospiti di 32 nazionalità, la maggioranza somali e nigeriani, oltre i due terzi siedono regolarmente sui banchi di scuola per imparare un mestiere. Sono tutti richiedenti asilo. E in questo pomeriggio gelido di gennaio i somali circolano con le infradito ai piedi e il macawis, una specie di gonna leggerissima che scende fino alle caviglie. I container messi in fila («Sono come quelli per i terremotati di Amatrice», dice Francis Shemis, ragazzo congolese responsabile della coop Acuarinto) hanno fronteggiato i nuovi arrivi. La vita sembra scorrere tranquilla, con la monotonia dei Tir che scivolano giorno e notte sulla tangenziale Est di Milano. «Sono liberi di entrare e uscire quando vogliono, ma il rientro è fissato tassativamente per le 23», spiega Alessandro Schembri, trentenne di Agrigento capo della struttura lombarda della Gepsa.
Lui e Francis il congolese sono la prova provata del pragmatismo di Milano e dei meccanismi innescati dall’economia dell’integrazione: immigrati che insegnano ad altri migranti le regole per conquistarsi lo status di cittadini milanesi.