Tra debito e crescita l’equazione delle riforme
La campagna referendaria aveva già portato ad una minor attenzione sui temi economici italiani, se si esclude il comparto bancario. Questa dinamica si è confermata nel dopo referendum forse perché la veloce approvazione della legge di stabilità e la concomitante risoluzione della crisi di governo, per merito del presidente della Repubblica e di un Parlamento consapevole, hanno dato un segno di sicurezza alla politica e ai mercati internazionali.
Per ora questo (e l’ombrello della Bce) è bastato a sedare i molti e qualificati referenti esteri che si erano espressi, a torto o a ragione, per il “si” prefigurando effetti economico-finanziari negativi se avesse prevalso il “no”. Non bisogna, però, costruirci sopra interpretazioni affrettate tra le quali ne ricordiamo tre. Una è che i mercati hanno già capito che il “no” referendario è anche la bocciatura delle politiche economiche del Governo Renzi e che le prossime saranno migliori. L’altra è che le politiche economiche non dipendono tanto dai Governi perché sono “standardizzate” dalla Ue e dalla Uem e dalle scelte della Bce. E, all’estremo opposto, che il “no” esprime la voglia di uscire dall’euro per rilanciare l’economia.
Insomma dentro il “no” si è infilato di tutto così come probabilmente sarebbe successo se avesse vinto il “si”. Rimane il rischio che l’esacerbata dialettica referendaria prosegua mentre nel Paese ci sono problemi urgenti da affrontare. Infatti il 2017 si prefigura per l’Italia e per l’Europa molto più difficile del 2016. Pertanto è necessario un sovrappiù di impegno perché la ripresa c’è ma è fragile, come cercheremo di dimostrare nel seguito.
L’Italia e l’equazione impossibile. Il nostro Paese, dopo aver perso 8 punti di Pil sul 2007 inanellando dal quarto trimestre del 2011 otto trimestri di calo, a partire dal primo trimestre del 2014 è cresciuto fino al massimo dello 0,9% tendenziale del Pil nel terzo trimestre del 2016. Ci siamo quindi avvicinati a quel fatidico 1% che sembrava per noi una chimera ma che rimane distante dall’1,7% dell’Eurozona.
Tra le molte cause di questo divario ne ricordiamo due. La prima è che non possiamo fare una politica di investimenti più forte a causa dei nostri conti pubblici, ovvero per l’alto debito e la rigidità della spesa. La seconda, da cui dipende anche in parte la prima, è che dal quarto trimestre del 2011 sono cambiati cinque governi: Berlusconi, Monti, Letta, Renzi, Gentiloni. Prescindendo dal Governo Berlusconi, giunto esausto e sfiduciato dalle cancellerie europee e dai mercati al novembre del 2011, si è passati dal duro rigore del Governo Monti (che ha però ridato credibilità all’Italia minacciata dalla impennata dei tassi e dello spread), all’avvio della transizione dell’europeista Letta verso una politica meno restrittiva, alla spinta di Renzi per la crescita. Può sembrare paradossale ma questi tre Governi hanno avuto una loro continuità nella discontinuità in quanto ciascuno, nel momento in cui viveva, ha combinato in misura diversa rigore e riforme. Il problema è che questa equazione (2R) non può essere risolta da Governi a vita breve. Solo Esecutivi a durata quinquennale sostenuti da maggioranze solide e coese possono (cercare di) coniugare la riduzione durevole del debito pubblico sul Pil con il rilancio della crescita e della produttività tramite le riforme. Il Governo Renzi è stato dei tre il più longevo superando i mille giorni nei quali ha puntato su più riforme, più flessibilità e meno rigore agganciando così la ripresa dell’Eurozona sia pure con uno scarto di crescita. L’Italia a chiazze Questa trova la sua causa in una Italia a chiazze dove molte ancora sono le riforme da realizzare per solidificare una crescita diffusa della produttività di cui abbiamo urgente bisogno. Si tratterebbe di trasferire a tutto il sistema Paese quella efficienza che caratterizza solo una parte delle nostre imprese (esempi: il IV capitalismo e le multinazionali flessibili ), delle nostre Città e Regioni (esempi: Milano ed Emilia Romagna), delle nostre pubbliche amministrazioni (esempi: la protezione civile e la pubblica sicurezza), delle nostre infrastrutture (esempio: Alta velocità e ATM Milano).
Bene ha fatto il presidente Gentiloni ad affermare la continuità con il governo Renzi anche perché, stante l’incertezza sulla sua durata, sarebbe stato un errore fare diversamente. Inoltre la legge di stabilità 2017 è condivisibile e quasi tutti gli indicatori macroeconomici (conti delle amministrazioni pubbliche, reddito e risparmio delle famiglie, profitti e investimenti delle società non finanziarie, resi noti dall’Istat pochi giorni fa) sul III trimestre segnano un andamento positivo. Aspettiamo a giorni i dati sulla disoccupazione perché, malgrado il suo miglioramento negli ultimi due anni, la stessa rimane alta soprattutto tra le persone fino a 34 anni. Per i più giovani il problema riguarda molto gli investimenti in formazione professionalizzante mentre per i meno giovani bisogna proseguire e se possibile spingere l’occupazione in strutture innovative (pubbliche e private) dalle quali dipende la dinamica della nostra produttività e competitività. Europa: le incognite del 2017 La situazione italiana nel 2017 molto dipenderà anche da quella dell’Eurozona che sarà più difficile del 2016. Ragioni politiche interne (connesse a varie elezioni nazionali) ed esterne (nuovo presidente degli Usa) e fattori economici avranno notevoli influenze sulla crescita. Per capirlo basta pensare a quale pressione sarà esercitata sulla Bce se l’inflazione, come prevede la Commissione europea, crescerà in media nella Uem all’1,4%, in Germania all’1,5% e in Italia all’1,2%. Se il quantitative easing verrà frenato e i tassi di interesse ricominceranno a salire, gli effetti sulla crescita si sentiranno soprattutto nei Paesi(come l’Italia) ad alto debito. Ed ancora l’attuazione di Brexit (per ora narcotizzata) inciderà anche sull’economia dell'Europa continentale. Infine, se gli Usa adotteranno politiche neo-protezioniste, il vantaggio competitivo dell’euro debole verrà vanificato rispetto ad un mercato fondamentale e non solo per le nostre esportazioni. L’elenco potrebbe continuare ma le conclusioni sono già chiare. Senza una forte politica economica europea l’incertezza sarà il segno dominante del 2017.