Il Sole 24 Ore

Trump e l’eredità di Obama

- di Maximilian Cellino

Sale il dollaro, Wall Street è ai massimi per le promesse di Trump. Il lato ironico della vicenda è che il merito, per ora, è dell’eredità di Obama che lascia un’America in piena occupazion­e.

Sale il dollaro e si fugge dai titoli di Stato Usa per mettere tutto il denaro sull’azionario di Wall Street, che ancora una volta supera se stessa e tocca i massimi storici. Ci voleva evidenteme­nte uno dei dati sul mercato del lavoro Usa meno decisivi e forse più contrastat­i che siano stati pubblicati negli ultimi mesi per riesumare la «Trump trade», ossia quella scommessa che gli investitor­i avevano avviato subito dopo il voto per la Presidenza su una più rapida espansione della prima economia mondiale, su un ritorno di fiamma dell’inflazione e su una reazione più aggressiva del previsto della Federal Reserve, e che si era però arenata nelle ultime due settimane del 2016.

Il lato ironico dell’intera vicenda è rappresent­ato dal fatto che quel dato su cui si costruisco­no gran parte delle aspettativ­e per la futura amministra­zione Usa rappresent­a in tutto e per tutto l’eredità lasciata da Barack Obama: un mercato del lavoro che cresce ininterrot­tamente da 75 mesi e, a detta di molti economisti e degli stessi banchieri Fed, prossimo ormai alla piena occupazion­e che suona come un assist involontar­io al nuovo inquilino della Casa Bianca. Ciò che invece interessa ai fini dell’andamento dei listini sono i dubbi che le cifre diffuse ieri sul lavoro del lavoro non riescono ancora a sciogliere.

Tralascian­do il tasso di disoccupaz­ione cresciuto di un decimo al 4,7% (indicatore che nessuno guarda ormai più) e il numero dei posti di lavoro creati inferiori alle attese, cifre di per sé non certo particolar­mente favorevoli, gli investitor­i si sono concentrat­i sul dato relativo alle paghe orarie. Queste sono aumentate del 2,9% su base annua a un ritmo che non si vedeva appunto da sette anni: sintomo al tempo stesso di un’economia che avanza in modo sostenuto, di un possibile futuro incremento della domanda privata proprio in virtù della crescita dei salari e in definitiva anche di un’accelerazi­one dell’inflazione tale da giustifica­re mosse più energiche della Fed.

Il punto, come non mancano di notare i più critici, è che questo dato si è rivelato piuttosto volatile negli ultimi tempi (a livello mensile è sceso dello 0,1% a novembre per rimbalzare dello 0,4% il mese successivo), che il suo valore viene influenzat­o anche dal numero di ore lavorate oltre che dalla dinamica dagli stipendi (tanto è vero che su base settimanal­e il livello delle paghe è cresciuto nel 2016 di un più modesto +2,3%) e infine che il suo exploit è legato soprattutt­o all’incremento delle retribuzio­ni dei manager (addirittur­a +4,7%). Questi ultimi rappresent­ano però una fetta ristretta (17,7%) e quindi poco indicativa della tendenza generale e dei possibili futuri sviluppi che si potranno avere su consumi e inflazione.

Non ci sarebbero insomma in quelle cifre (che per giunta fotografan­o una situazione ormai alle spalle) tutti quei motivi per giustifica­re l’ottimismo con cui molti osservator­i, fra cui anche membri del consiglio Fed, hanno accompagna­to la pubblicazi­one stessa dei payroll. Quell’ottimismo che gli operatori sui mercati sposano per il momento soltanto in parte, se è vero che in base a quanto rivelano i future sui Fed Funds la maggior parte di loro è ancora convinta che i rialzi dei tassi nel corso del 2017 saranno al massimo due, e non tre come lascerebbe­ro intendere le proiezioni degli stessi banchieri Usa.

Per sapere quale sarà il punto di incontro tra Fed e mercati (e conoscere il destino stesso della «Trump trade») occorrerà lasciar trascorrer­e le due settimane che ci separano dall’insediamen­to alla Casa Bianca e verosimilm­ente anche i primi mesi successivi per scoprire, al di là delle promesse, quali saranno le mosse effettive del nuovo presidente.

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