Trump e l’eredità di Obama
Sale il dollaro, Wall Street è ai massimi per le promesse di Trump. Il lato ironico della vicenda è che il merito, per ora, è dell’eredità di Obama che lascia un’America in piena occupazione.
Sale il dollaro e si fugge dai titoli di Stato Usa per mettere tutto il denaro sull’azionario di Wall Street, che ancora una volta supera se stessa e tocca i massimi storici. Ci voleva evidentemente uno dei dati sul mercato del lavoro Usa meno decisivi e forse più contrastati che siano stati pubblicati negli ultimi mesi per riesumare la «Trump trade», ossia quella scommessa che gli investitori avevano avviato subito dopo il voto per la Presidenza su una più rapida espansione della prima economia mondiale, su un ritorno di fiamma dell’inflazione e su una reazione più aggressiva del previsto della Federal Reserve, e che si era però arenata nelle ultime due settimane del 2016.
Il lato ironico dell’intera vicenda è rappresentato dal fatto che quel dato su cui si costruiscono gran parte delle aspettative per la futura amministrazione Usa rappresenta in tutto e per tutto l’eredità lasciata da Barack Obama: un mercato del lavoro che cresce ininterrottamente da 75 mesi e, a detta di molti economisti e degli stessi banchieri Fed, prossimo ormai alla piena occupazione che suona come un assist involontario al nuovo inquilino della Casa Bianca. Ciò che invece interessa ai fini dell’andamento dei listini sono i dubbi che le cifre diffuse ieri sul lavoro del lavoro non riescono ancora a sciogliere.
Tralasciando il tasso di disoccupazione cresciuto di un decimo al 4,7% (indicatore che nessuno guarda ormai più) e il numero dei posti di lavoro creati inferiori alle attese, cifre di per sé non certo particolarmente favorevoli, gli investitori si sono concentrati sul dato relativo alle paghe orarie. Queste sono aumentate del 2,9% su base annua a un ritmo che non si vedeva appunto da sette anni: sintomo al tempo stesso di un’economia che avanza in modo sostenuto, di un possibile futuro incremento della domanda privata proprio in virtù della crescita dei salari e in definitiva anche di un’accelerazione dell’inflazione tale da giustificare mosse più energiche della Fed.
Il punto, come non mancano di notare i più critici, è che questo dato si è rivelato piuttosto volatile negli ultimi tempi (a livello mensile è sceso dello 0,1% a novembre per rimbalzare dello 0,4% il mese successivo), che il suo valore viene influenzato anche dal numero di ore lavorate oltre che dalla dinamica dagli stipendi (tanto è vero che su base settimanale il livello delle paghe è cresciuto nel 2016 di un più modesto +2,3%) e infine che il suo exploit è legato soprattutto all’incremento delle retribuzioni dei manager (addirittura +4,7%). Questi ultimi rappresentano però una fetta ristretta (17,7%) e quindi poco indicativa della tendenza generale e dei possibili futuri sviluppi che si potranno avere su consumi e inflazione.
Non ci sarebbero insomma in quelle cifre (che per giunta fotografano una situazione ormai alle spalle) tutti quei motivi per giustificare l’ottimismo con cui molti osservatori, fra cui anche membri del consiglio Fed, hanno accompagnato la pubblicazione stessa dei payroll. Quell’ottimismo che gli operatori sui mercati sposano per il momento soltanto in parte, se è vero che in base a quanto rivelano i future sui Fed Funds la maggior parte di loro è ancora convinta che i rialzi dei tassi nel corso del 2017 saranno al massimo due, e non tre come lascerebbero intendere le proiezioni degli stessi banchieri Usa.
Per sapere quale sarà il punto di incontro tra Fed e mercati (e conoscere il destino stesso della «Trump trade») occorrerà lasciar trascorrere le due settimane che ci separano dall’insediamento alla Casa Bianca e verosimilmente anche i primi mesi successivi per scoprire, al di là delle promesse, quali saranno le mosse effettive del nuovo presidente.