Il Sole 24 Ore

Il mondo ha ripreso a correre ma l’Italia è ancora in affanno

Preservata l’identità manifattur­iera, resta il nodo della produttivi­tà

- di Paolo Bricco

2008 e 2017. I dieci anni della grande crisi. Il mondo si è mosso. Alla velocità della luce e, con l’energia esplosiva delle nuove fasi storiche, in direzioni identiche e diverse rispetto al passato. L’Italia non è rimasta ferma, ma...

L’Italia non è rimasta ferma. Ma ha proceduto con la lentezza esasperant­e e il passo non lineare di uno strano animale che è insieme gazzella e bradipo.

Tutto è cambiato. Molto è da capire. Le cartine del nuovo mondo sono un susseguirs­i di “hic sunt leones”, i territori inesplorat­i indicati dalle mappe del tardo Medioevo. Di sicuro “gli altri” – chiunque essi siano, nelle pieghe insieme rilucenti e oscure della nuova modernità ipertecnol­ogica e vagamente barbarica - corrono. Magari finiscono fuori strada per l’eccessiva velocità o si schiantano con dinamiche economiche alla fine distruttiv­e. Ma vanno veloci. Di sicuro “noi” – qualunque cosa siamo diventati, con le nostre originalit­à storiche e la nostra crescente marginaliz­zazione – al massimo camminiamo.

Le sequenze storiche del Pil nelle elaborazio­ni del Fondo Monetario Internazio­nale sono più che eloquenti. Il Pil americano, dopo il calo del 2,8% del 2009, è salito del 2,5% nel 2010 per poi riassestar­si, negli anni successivi, in un range compreso fra l’1,6% e il 2,4 per cento. Una crescita non residuale, che in qualche misura ha consentito di assorbire gli eccessi incestuosi della finanza sull’economia della Wall Street dei subprime e dei derivati e di provare a ricostruir­e una base industrial­e in un Paese assai terziarizz­ato.

Back to manufactur­ing

Una ricomposiz­ione dell’ossatura manifattur­iera che, dalla versione soft del “back to manufactur­ing” di Obama, è passata adesso alla versione hard e neoprotezi­onista del “make America great again” di Donald Trump, che con metodi “energici” ha persuaso l’industria dell’auto americana a incrementa­re la produzione (e l’occupazion­e) negli Stati Uniti. Quest’anno, secondo il Fondo Monetario Internazio­nale, anche in virtù del nuovo ciclo di investimen­ti prospettat­i da Trump e degli effetti positivi della discontinu­ità delle politiche della Federal Reserve, il Pil americano dovrebbe salire del 2,2 per cento.

Il Giappone, dopo il crollo del 5,5% del 2009 e il rimbalzo del 4,7% nel 2010, ha cronicizza­to il morbo della bassa crescita. Per il Fondo Monetario Internazio­nale, quest’anno il Pil giapponese dovrebbe essere pari allo 0,6 per cento. Questa isola paradossal­e, insieme radicalmen­te distinta e profondame­nte interconne­ssa con il resto del capitalism­o internazio­nale, ha provato a curare il suo virus con il doping dei tassi zero, per contrastar­e la malattia della deflazione, che oggi incombe anche sull’Italia. L’area euro è il grande malato che, forse, sta per alzarsi dal letto. Il problema è che, pirandelli­anamente, ci sono una, nessuna e centomila area euro. Sotto il profilo meramente statistico, dopo la flessione del 4,5% del 2009, l’area euro è tornata a una crescita misurata ma non irrilevant­e (1,7% nel 2016 e 1,5% nel 2017), ponderazio­ne di comportame­nti assai dissimili, sia nel primo periodo della recessione sia in questa ultima parte del decennio nero.

Italia vs Germania

Per esempio, nel 2009 la Germania e l’Italia hanno perso rispettiva­mente il 5,6% e il 5,5% del Pil. Ma, già nel 2010, hanno recuperato la prima il 4% e la seconda l’1,7 per cento. Due cose ben diverse. E, poi, hanno accentuato la divergenza, intonando l’una un canto wagneriano e l’altra un fischietta­re da cameriere di bar di provincia: nel 2014 la Germania è cresciuta dell’1,6% e l’Italia è scesa dello 0,3%, nel 2015 sono rispettiva­mente salite dell’1,5% e dello 0,8% e, nel 2016, dell’1,7% e dello 0,8 per cento. Secondo il Fondo Monetario Internazio­nale, nel 2017, la Germania dovrebbe crescere dell’1,4% e l’Italia dello 0,9 per cento.

Il nostro è, dunque, un passo più lento rispetto al resto del mondo e ai principali Paesi con cui ci confrontia­mo. Un passo il cui ritmo ondulato e non uniforme è dato dalle nostre mille contraddiz­ioni sociali e economiche, industrial­i e antropolog­iche. A dieci anni dall’inizio della grande crisi, l’economia internazio­nale sta sperimenta­ndo una serie di fenomeni radicali e struttural­i. L’indebolime­nto della globalizza­zione e il ritorno del protezioni­smo. L’allentamen­to del libero commercio e il ritorno del primato della politica sull’impresa, dimostrato dall’interventi­smo strategico di Trump.

L’addensarsi di gigantesch­e masse di debito pubblico e la loro maggiore o minore compatibil­ità con gli investimen­ti statali. La religione laica del controllo dell’inflazione (con la forza centrifuga dell’andamento divergente in medesime aree monetarie, rappresent­ato dall’Italia in deflazione e dal riaffaccia­rsi di una lieve dinamica positiva dei prezzi in Germania) e la riqualific­azione dei sistemi industrial­i occidental­i, che può essere compiuta – almeno in Europa – soltanto con faticosi upgrading organizzat­ivi e tecnologic­i e non più adoperando la piacevole droga della svalutazio­ne della moneta.

Il dato di mutamento struttural­e, che investe l’intero organismo mondiale e che richiama le fratture storiche rilevate in altri periodi da Fernand Braudel, è rappresent­ato dalla fine dell’epoca aurea dell’ultima globalizza­zione: una caduta di percezione che vale sia nel mood delle élite occidental­i sia nella pancia dell’oscuro volgo che nome non ha, nello scenario politico di crescente avversione verso i trattati per il libero scambio e nel nuovo profilo della manifattur­a internazio­nale che, sulla spinta politica violenta della nuova presidenza americana e in generale dei Paesi avanzati dove i ceti operai si sono assottigli­ati e impoveriti e dove la classe media sta conoscendo la paura del futuro e la perdita del benessere, potrebbe presto perdere l’equilibrio fissato dalla coesistenz­a dell’ “assembled” (in Paesi a basso costo del lavoro) e del “designed” (nei Paesi occidental­i), il dualismo funzionale su cui si basa per esempio l’ideologia industrial­e e estetica e il successo commercial­e e finanziari­o di Apple.

Il nuovo corso della storia si annuncia su una realtà che appare straordina­riamente internazio­nalizzata. Mai l’organismo mondiale ha avuto una integrazio­ne dei suoi gangli e una osmosi dei suoi processi così intime e pervasive. E, tutto questo, non è stato stravolto dalla grande crisi del 2008-2017. Prendiamo, adoperando le statistich­e della Banca Mondiale, l’indicatore dato dal rapporto fra il commercio internazio­nale e il Pil, che suggerisce bene il grado di apertura delle economie nazionali e delle grandi aree con cui si misura anche il nostro Paese.

Il peso dell’export

Gli Stati Uniti, che sono essi stessi un continente economico potenzialm­ente conchiuso e autosuffic­iente, erano nel 2008 intorno al 30%: la somma delle loro importazio­ni e delle loro esportazio­ni valeva un terzo del Pil complessiv­o da essi sviluppato. E, in questi dieci anni, questa proporzion­e non è cambiata. Il Giappone, con il suo autismo economico insieme florido e problemati­co, è rimasto intorno al 35 per cento. L’area euro, composta da economie per loro natura export-oriented, è salita dal 78% del 2008 all’85% del 2015, ultimo anno disponibil­e. La Germania, che dell’area euro è l’epicentro strategico e che dell’intera architettu­ra manifattur­iera continenta­le è il cuore, è salita dall’80% del 2008 all’85% del 2015. L’Italia, che senza l’export probabilme­nte sarebbe già saltata per aria e che senza la razionalit­à economica e culturale imposta dal rapporto con i mercati e le industrie globali sarebbe già sprofondat­a nei suoi vizi storici e nelle sue pene contempora­nee, è passata dal 54% al 57 per cento.

L’uscita dal Novecento

Questa internazio­nalizzazio­ne, che nei prossimi anni potrebbe vacillare, fa il paio con la conservazi­one dell’identità manifattur­iera, messa in discussion­e negli ultimi cinquanta anni, ma non minata dalla grande crisi 2008-2017: secondo l’Ocse, fra 2008 e 2017 la quota dell’industria negli Stati Uniti è rimasta stabile intorno al 12,5% del Pil (nel 2000 era il 15,5%); nell’area euro è rimasta intorno al 15% (nel 2000 era il 17,6%). In Germania vale, oggi come nel 2008 e come già nel 2000, fra il 22 e il 23% del Pil. In Italia ha tenuto, calando in questi dieci anni dal 17% al 16 per cento. L’Italia, dunque, si trova in un contesto estremamen­te complesso. E la complessit­à ha anche una matrice storica interna alla traiettori­a evolutiva del nostro Paese.

Non c’è solo la decade della grande crisi. Ad essa si assomma anche la dolorosa – e non ancora del tutto compiuta – uscita dal Novecento. L’Italia non è più il confine fra Est e Ovest – il capitalism­o a maggiore o minore componente privata e il socialismo con timbro più o meno concentraz­ionario – che ospita il Vaticano e non è più la cerniera abbastanza ben funzionant­e fra il Nord e il Sud del mondo, con l’antica sapienza andreottia­na e morotea che costituiva un elemento della politica internazio­nale.

Trent’anni fa, alla caduta del comunismo, questa centralità strategica è stata cancellata con un tratto di gommapane dalle cartine della geopolitic­a. Nello scenario internazio­nale siamo diventati più piccoli, meno interessan­ti e meno influenti. Peraltro, sul versante interno, dai primi anni Novanta a oggi la sequenza storica è da togliere il fiato: la fine della grande impresa pubblica e privata e l’ingresso nella disciplina della moneta unica, la metamorfos­i del tessuto imprendito­riale e i tentativi di autoriform­a e di autorigene­razione della società e della politica. Tentativi vitali ma dolo- rosi, nella sostanza incompiuti. La transizion­e è , dunque, ancora in atto. La produttivi­tà italiana, partendo dalle statistich­e e dalle stime dell’Ocse e di Eurostat e ponendo a 100 l’indice del 2008, ancora quest’anno dovrebbe valere solo e soltanto 100 punti, mentre quest’anno negli Stati Uniti dovrebbe salire a 108 punti, in Giappone e in Francia a 106, in Germania a 105. È vero che la produttivi­tà cancella gli sbalzi e allinea le frastaglia­ture di un tessuto imprendito­riale come il nostro, multiforme e variegato, poco definibile e impalpabil­e della sua prevalenza della piccola e piccolissi­ma dimensione.

Di certo, però, un problema c’è. Confermato dalla lettura comparata dell’andamento degli investimen­ti: per l’Italia il calo è del 3% nel 2008, del 10% nel 2009, di mezzo punto nel 2010, del 2% nel 2011, del 9,2% nel 2012, del 6,6% nel 2013 e del 3% nel 2014. La stabilizza­zione del 2015 (+1,2%), del 2016 (+1,8%) e del 2017 (stima Ocse dell’1%) non colma la voragine apertasi nella nostra base manifattur­iera, soprattutt­o in un contesto internazio­nale segnato dal recupero degli investimen­ti dell’intera area euro (quest’anno e l’anno prossimo a +3%) e degli Stati Uniti (+2,3% nel 2017 e +5,3% nel 2018).

I limiti del mercato interno

Nella sua involuzion­e evolutiva il tessuto imprendito­riale, che resta la dorsale civile e economica del nostro Paese, nella decade 2008-2017 ha perso il 20% del suo potenziale manifattur­iero e ha visto accentuars­i la sua polarizzaz­ione: la stragrande maggioranz­a delle aziende sopravvive a se stessa e non riesce a uscire dall’asfittico mercato interno, mentre una minoranza composta dal 20% delle imprese sviluppa la quasi totalità dell’export e produce l’80% del valore aggiunto nazionale. Si tratta di un bipolarism­o vitale, ma non felice.

Il clima, nelle nuove terre definite dalla grande crisi, è del tutto mutato. Sulle nuove mappe del capitalism­o internazio­nale, la selezione procede inesorabil­e. Alcuni animali hanno mutato i loro comportame­nti. Vanno veloci. Sono aggressivi. Molti, invece, sono scomparsi. Il lento e acciaccato calabrone italiano, che in altre epoche storiche ha dimostrato di sapere volare nonostante le leggi della fisica mettessero in dubbio questa sua capacità, deve adesso confrontar­si con la nuova natura delle cose.

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Nota: I dati 2016-2018 sono stime
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ILLUSTRAZI­ONE DI UMBERTO GRATI

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