Il Sole 24 Ore

Un riequilibr­io ancora troppo graduale

- Di Riccardo Sorrentino

L’economia tedesca cresce rapidament­e. Più che in altri Paesi europei. La sorpresa è nel fatto che per una volta - ma era già accaduto nel 2013 - le esportazio­ni nette hanno “rallentato” l’economia. L’anno scorso il Pil tedesco è salito dell’1,9%, ma il commercio con l’estero ha agito da freno: ha ridotto la crescita di 0,1 punti percentual­i.

A spingere l’economia sono stati soprattutt­o i consumi primari, che hanno contribuit­o per 1,1 punti percentual­i all’1,9% complessiv­o, i consumi pubblici in forte accelerazi­one (0,8 punti) e gli investimen­ti, soprattutt­o in costruzion­i (0,5 punti). La spinta della domanda interna ha fatto sì che le importazio­ni siano salite del 3,4%, più rapidament­e delle esportazio­ni, in aumento del 2,5%. Il surplus della bilancia commercial­e resta comunque elevato: 242 miliardi nei confronti di tutto il mondo, il 7,7% del Pil, in calo dall’8,7% del 2015.

Sta dunque accadendo, sia pure lentamente, quanto molti economisti e analisti auspicano da tempo: un riequilibr­io dell’eco- nomia tedesca, “accusata” negli anni scorsi di applicare una politica quasi mercantili­sta, che puntava alle esportazio­ni tenendo a bada la domanda interna. La moderazion­e salariale, in effetti, è stata uno dei cardini della strategia di Berlino; mentre nel 2009, per contrastar­e la crisi, la Germania ha adottato una sorta di svalutazio­ne fiscale: sostegno alle aziende esportatri­ci e aumento dell’Iva (qualcosa di simile a quanto ha poi fatto, con risultati abbastanza positivi, il Portogallo e ha tentato di fare la Francia prima che Hollande smontasse la riforma voluta da Sarkozy).

Qualcosa ora sta cambiando: l’anno scorso le retribuzio­ni sono salite del 2,3% e il costo unitario del lavoro dell’1,5%, mentre la produttivi­tà è aumentata del solo 0,9%. Sarebbe facile ricondurre questa dinamica - non sana, ma sostenibil­e in un’economia come quella tedesca - all’introduzio­ne del salario minimo nel 2015, ma i dati di Destatis mostrano che questa divaricazi­one è presente almeno dal 2012. Analogamen­te, non va troppo enfatizzat­o l’aumento dei consumi pubblici: per il 2016 Destatis stima un surplus fiscale pari allo 0,6% del Pil, con- tro un deficit medio di Eurolandia pari al -1,8%, e un debito pubblico in calo al 68,1% dal 71,2%.

Per molti economisti, il rigore fiscale è però il segno che il Governo di Berlino potrebbe fare anche di più. I dati di ieri non placherann­o dunque le polemiche contro la Germania e il suo surplus commercial­e, almeno di quello verso Eurolandia che - calcolato in base alle indicazion­i di Destatis - dovrebbe essere vicino ai 130 miliardi, il 4,1% del Pil. È infatti la moneta comune a esacerbare il problema posto della bilancia corrente tedesca, considerat­a non a caso uno squilibrio da correggere dalla Commission­e Ue: in un regime di cambi flessibili, la moneta tedesca - spinta anche dai flussi finanziari - si apprezzere­bbe...

Non è in realtà del tutto chiaro come l’intervento del Governo possa incidere sul surplus corrente, che per l’Fmi non è legato a distorsion­i politiche ed è comunque dovuto, per la metà almeno, a fattori fondamenta­li, non modificabi­li. La Commission­e Ue ha tuttavia stime diverse (solo l’1% sarebbe struttural­e) e quindi continuerà a insistere perché la Germania spinga le importazio­ni attraverso salari e spese pubbliche.

Non va dimenticat­o, in ogni caso, che in un mondo così integrato il nazionalis­mo economico ha - malgrado i desideri della politica - sempre meno senso. Il 25% del valore aggiunto delle esportazio­ni tedesche - gli ultimi dati Ocse sono però del 2011 - viene generato all’estero (il 7,7% in Eurolandia, il 12% nella Ue). La Germania coinvolge, nella catena del valore, molti Paesi: gli Stati Uniti innanzitut­to, seguiti da Francia, Gran Bretagna, Russia, Italia (per l’1,4%) e Cina. Senza contare che, per esempio, il 3,4% del valore aggiunto delle esportazio­ni italiane è generato in Germania, che è il nostro primo partner in questa statistica.

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