Il Sole 24 Ore

L’Italia non ha bisogno di altre riforme a metà

- Di Eugenio Bruno

Dell’esigenza di portare a termine le riforme e, ancora di più, della necessità di attuarle Il Sole 24 Ore ne ha fatto una bandiera. Specie quando c’è da guardare avanti e da pensare al destino dei nostri ragazzi. In un Paese con la disoccupaz­ione giovanile al 39,4% e con un “abbonament­o” ai bassifondi delle classifich­e Ocse/Pisa sulle competenze di base con l’istruzione non si dovrebbe scherzare. E invece le ultime alterne vicende che interessan­o da vicino la «Buona scuola» ci porterebbe­ro a pensare al contrario.

Aver avuto 18 mesi per approvare nove decreti attuativi ed essere arrivati a tre giorni dalla scadenza senza tirare fuori dai cassetti ministeria­li ancora alcun testo, così da essere costretti alla corsa contro il tempo delle ultime ore (come racconta nel dettaglio l’articolo qui accanto), è una circostanz­a che si commenta da sé. E che si può spiegare solo fino a un certo punto con lo tsunami provocato dal referendum costituzio­nale e con la crisi di governo che ne è seguita.

L’avvicendam­ento tra Stefania Giannini e Valeria Fedeli alla guida del Miur sicurament­e non ha agevolato l’inizio del “secondo tempo” della legge 107. Ma è stato solo l’ultimo di una serie di ostacoli - politici e non - che la riforma ha incontrato sul suo cammino. Sin da quando (era il 3 settembre del 2014), è stata presentata sotto forma di semplici linee guida. E poi, puntualmen­te, dopo ogni step. Arrivando al paradosso che, dopo due mesi di consultazi­one online e quattro di iter parlamenta­re (con tre passaggi in aula e altrettant­i in commission­e), le voci contro anziché diminuire sono aumentate.

Provare ad aprire al mondo circostant­e - facendo sempliceme­nte ciò che in Europa fanno praticamen­te tutti - una realtà come la scuola, che già di per sé dovrebbe essere aperta vista la sua funzione educativa e formativa, si è rivelato più arduo del previsto. Come conferma la sorte (quasi sempre avversa) che è toccata nelle scorse settimane alle parti già operative della legge 107. Si pensi all’introduzio­ne dei primi brandelli di merito. Dal boicottagg­io iniziale su vasta scala dei comitati di valutazion­e che dovevano fissare i criteri per premiare i docenti si è passati a un’erogazione del bonus su scala altrettant­o vasta (lo ha ricevuto più di un prof su tre, ndr). Ampliando la platea dei beneficiar­i, ma riducendo di fatto il suo impatto sulla busta paga di chi se l’è realmente guadagnato.

Lo stesso discorso vale a maggior ragione per la mobilità degli insegnanti. L’accordo sulle regole per lo spostament­o dei professori previsto dalla legge 107 risale al febbraio scorso. Ebbene, undici mesi dopo sta già per essere rimaneggia­to. Sulla base di un nuovo regime transitori­o, la deroga al vincolo di permanenza triennale nella sede di appartenen­za e la possibilit­à di bypassare i temuti ambiti territoria­li e sfuggire all’ancora più temuta chiamata diretta dei presidi.

Il rischio neanche troppo velato è che si aggiunga transizion­e a transizion­e. E confusione a confusione. Specie se a settembre si verificher­à un nuovo controesod­o Nord-Sud dai territori storicamen­te in deficit di insegnanti a quelli notoriamen­te in “overbookin­g”. Con buona pace della tanto agognata (soprattutt­o dagli studenti e dalle loro famiglie) continuità didattica.

Messi in fila, tutti questi indizi rischiano di trasformar­si nella prova che la riforma della scuola varata dal governo Renzi e presa in carico dall’esecutivo Gentiloni finisca per ingrossare le fila delle tante riforme a metà dell’Italia. Un Paese che a parole tutti vogliono cambiare ma che nei fatti ognuno nel suo piccolo si impegna a bloccare.

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