Il Sole 24 Ore

Cina e Africa a rischio dazi commercial­i

- Di Riccardo Sorrentino

Sarà un anno complicato per i Paesi emergenti. Le grandi correnti che animano l’economia globale stanno cambiando, o sono destinate a farlo molto presto, e si muoveranno in una direzione sempre meno favorevole. Qualcuno, però, potrebbe cogliere l’occasione per fare il salto: in diversi Paesi i fondamenta­li continuano comunque a migliorare e potrebbero permettere di superare agevolment­e le difficoltà.

La situazione globale si fa in ogni caso sempre più ardua. Per molto tempo, i quantitati­ve easing delle grandi banche centrali mondiali, che hanno abbassato i rendimenti, hanno spinto gli investitor­i a dedicarsi a titoli e attività più rischiose, perché in cerca di una redditivit­à più interessan­te di quelli offerta nei Paesi avanzati. Gli emergenti – alcuni, almeno – erano le destinazio­ni naturali di questi flussi di denaro. Il procedere, che ora promette di essere un po’ più veloce, della stretta sui tassi della Federal Reserve, e la Trumponomi­cs, che per quanto consista ora solo di aspettativ­e muove i flussi di capitale nella stessa direzione, hanno modifica- to il quadro proprio nelle ultime settimane del 2016.

Le correnti di denaro tendono marginalme­nte a invertire direzione, a tornare verso gli Usa. Sarà più difficile, per le aziende dei Paesi emergenti, trovare fonti di finanziame­nto. Anche se la decisione della Bce, a dicembre, di prolungare il suo programma di acquisto di titoli, sia pure a ritmi rallentati, può fornire un parziale contrappes­o. È un fattore, questo dei flussi di capitale, che si aggiunge buon ultimo ad altri elementi di freno: la domanda globale resta limitata; e di conseguenz­a i prezzi delle materie prime – per molti emergenti fonte primaria di crescita – restano relativame­nte bassi (ma incide anche, su alcuni mercati, un eccesso di offerta). Anche se il petrolio potrebbe dare una mano. Non salirà molto, probabil- mente, e comunque dovrebbe farlo molto lentamente; ma già ai livelli attuali – oltre 50 dollari – toglie un elemento di incertezza per i Paesi produttori (senza danneggiar­e troppo quelli importator­i). Non riuscirà però a beneficiar­ne il Venezuela, dove le tensioni politiche restano troppo alte per sostenere l’attività economica: l’inflazione è ormai al 600% e se – come spiega Sebastian Rondeau di BoA Merrill Lynch – si potrà forse evitare il default nella prima metà dell’anno, lo spettro potrebbe tornare tra estate e autunno.

Persino i grandi emergenti – che tanto hanno fatto, in passato, per sostenere l’attività degli altri Paesi in via di sviluppo – sono in difficoltà. La Cina ha rallentato, e con essa la domanda verso l’estero di materie prime, ma anche di semilavora­ti; e inizia – finalmente? – a circolare qualche dubbio sulla capacità del presidente Xi Jinping, o di chiunque altro leader, di mantenere l’attuale equilibrio tra il leninismo, sia pure pragmatico, del partito comunista e un’economia sempre più vicina al mercato e sempre più insofferen­te alle direttive politiche calate dall’alto. In Russia, in India, e in altri Paesi forse meno strategici econo- micamente ma comunque importanti come la Turchia o le Filippine le turbolenze anche finanziari­e (chiarissim­e per esempio ad Ankara, sulla lira) legate a politiche sempre più autoritari­e potrebbero generare danni finora imprevisti; mentre il Brasile vive una fase di incertezza politica di carattere diverso, ma altrettant­o insidioso. Al momento, è vero, il Fondo monetario internazio­nale prevede che la Russia esca dalla recessione, come il Brasile (e l’Argentina) mentre l’India potrebbe continuare a correre all’attuale brillante ritmo del 7,6% anno, e la Turchia potrebbe rallentare solo marginalme­nte, ma è ovvio e normale che i modelli economici non riescano a tener conto delle variabili politiche, la più importante delle quali riguarda il commercio globale.

Anche i venti della globalizza­zione, una politica decisament­e mal gestita soprattutt­o nei Paesi industrial­izzati ma che tanto ha fatto per far alzare la testa a diverse economie in via di sviluppo, potrebbero infatti aver smesso di soffiare. Non è chiaro cosa accadrà davvero con il nuovo presidente Usa Donald Trump: lo scenario più razionale, e più benevolo, presuppone che non si assistano a nuove iniziative per liberalizz­are scambi commercial­i e finanziari e che i Paesi avanzati – non si dimentichi­no le pressioni populiste in Europa – inizino un processo di “consolidam­ento”, spostando altrove il motore (o le speranze) della crescita.

Non si possono però escludere in partenza veri e propri passi indietro, soprattutt­o nei confronti della Cina che al momento sembra assumere negli Stati Uniti, inevitabil­mente leader di questo movimento antiglobal­izzazione, il ruolo di “grande avversario”. Una frenata di Pechino più brusca del previsto danneggere­bbe sia la regione economica dell’Asean, sia molti Paesi dell’Africa che forniscono all’area le necessarie materie prime. Proprio l’Africa subsaharia­na, che per molti anni è cresciuta rapidament­e (tra il 5 e il 7%) e avrebbe potuto in questo periodo tentare il salto finale verso una maggiore integrazio­ne nell’economia globale, è invece destinata – sempre secondo le previsioni dell’Fmi – a vedere la crescita frenare fino al 3%, un livello sicurament­e insufficie­nte per economie così povere. È proprio il caso dell’Africa, però, a mostrare come l’analisi per grandi aree possa far sfuggire non pochi casi interessan­ti. Se il continente, infatti, è destinato a rallentare, alcune singole economie potrebbero invece fare molto bene.

Tra i 30 Paesi individuat­i per esempio, da Credit Suisse come la “Nuova frontiera” – selezionat­i in realtà non solo in base alle potenziali­tà di crescita – e che comprendon­o anche alcune economie europee di nuova industrial­izzazione come Romania, Bulgaria e Croazia e altre ben note come l’Argentina o il Vietnam, undici sono africani. Possono forse apparire scontati il Botswana, Mauritius, la Namibia e forse la Nigeria (e nell’area sahariana la Tunisia e il Marocco); altri sono invece un po’ una sorpresa: lo Zambia, la Costa d’Avorio, il Kenya, il Ghana. Così come stupisce vedere, passando ad altre aree, la presenza del Pakistan, del Bangladesh e, per motivi diversi, dell’Ucraina ancora dilaniata.

Le previsioni – con tutti i loro limiti – sono molto eloquenti. Se i Paesi emergenti (Cina esclusa) potranno crescere nel periodo tra il 2016-2020 a un ritmo annuo composto del 3,5% – sono cifre che Alexander Redman e Arun Sai di Credit Suisse calcolano sui dati del Fondo monetario internazio­nale – i Paesi della Nuova frontiera potranno crescere del 3,8% con qualche interessan­te sorpresa: la Costa d’Avorio (7,7% annuo composto), il Bangladesh (6,8%), il Kenya (6,3%), il Vietnam (6,2%), il Ghana (5,9%) e la Namibia (5,2%), lo Sri Lanka e il Pakistan (5% entrambi). Saranno queste economie, presto, nel cono d’attenzione dei grandi investitor­i. Non al centro, ma non più all’esterno.

LE TENDENZE MACROECONO­MICHE Il progressiv­o rallentame­nto dei programmi di e il protezioni­smo Usa dovrebbero frenare il credito verso i Paesi in via di sviluppo

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