Cina e Africa a rischio dazi commerciali
Sarà un anno complicato per i Paesi emergenti. Le grandi correnti che animano l’economia globale stanno cambiando, o sono destinate a farlo molto presto, e si muoveranno in una direzione sempre meno favorevole. Qualcuno, però, potrebbe cogliere l’occasione per fare il salto: in diversi Paesi i fondamentali continuano comunque a migliorare e potrebbero permettere di superare agevolmente le difficoltà.
La situazione globale si fa in ogni caso sempre più ardua. Per molto tempo, i quantitative easing delle grandi banche centrali mondiali, che hanno abbassato i rendimenti, hanno spinto gli investitori a dedicarsi a titoli e attività più rischiose, perché in cerca di una redditività più interessante di quelli offerta nei Paesi avanzati. Gli emergenti – alcuni, almeno – erano le destinazioni naturali di questi flussi di denaro. Il procedere, che ora promette di essere un po’ più veloce, della stretta sui tassi della Federal Reserve, e la Trumponomics, che per quanto consista ora solo di aspettative muove i flussi di capitale nella stessa direzione, hanno modifica- to il quadro proprio nelle ultime settimane del 2016.
Le correnti di denaro tendono marginalmente a invertire direzione, a tornare verso gli Usa. Sarà più difficile, per le aziende dei Paesi emergenti, trovare fonti di finanziamento. Anche se la decisione della Bce, a dicembre, di prolungare il suo programma di acquisto di titoli, sia pure a ritmi rallentati, può fornire un parziale contrappeso. È un fattore, questo dei flussi di capitale, che si aggiunge buon ultimo ad altri elementi di freno: la domanda globale resta limitata; e di conseguenza i prezzi delle materie prime – per molti emergenti fonte primaria di crescita – restano relativamente bassi (ma incide anche, su alcuni mercati, un eccesso di offerta). Anche se il petrolio potrebbe dare una mano. Non salirà molto, probabil- mente, e comunque dovrebbe farlo molto lentamente; ma già ai livelli attuali – oltre 50 dollari – toglie un elemento di incertezza per i Paesi produttori (senza danneggiare troppo quelli importatori). Non riuscirà però a beneficiarne il Venezuela, dove le tensioni politiche restano troppo alte per sostenere l’attività economica: l’inflazione è ormai al 600% e se – come spiega Sebastian Rondeau di BoA Merrill Lynch – si potrà forse evitare il default nella prima metà dell’anno, lo spettro potrebbe tornare tra estate e autunno.
Persino i grandi emergenti – che tanto hanno fatto, in passato, per sostenere l’attività degli altri Paesi in via di sviluppo – sono in difficoltà. La Cina ha rallentato, e con essa la domanda verso l’estero di materie prime, ma anche di semilavorati; e inizia – finalmente? – a circolare qualche dubbio sulla capacità del presidente Xi Jinping, o di chiunque altro leader, di mantenere l’attuale equilibrio tra il leninismo, sia pure pragmatico, del partito comunista e un’economia sempre più vicina al mercato e sempre più insofferente alle direttive politiche calate dall’alto. In Russia, in India, e in altri Paesi forse meno strategici econo- micamente ma comunque importanti come la Turchia o le Filippine le turbolenze anche finanziarie (chiarissime per esempio ad Ankara, sulla lira) legate a politiche sempre più autoritarie potrebbero generare danni finora imprevisti; mentre il Brasile vive una fase di incertezza politica di carattere diverso, ma altrettanto insidioso. Al momento, è vero, il Fondo monetario internazionale prevede che la Russia esca dalla recessione, come il Brasile (e l’Argentina) mentre l’India potrebbe continuare a correre all’attuale brillante ritmo del 7,6% anno, e la Turchia potrebbe rallentare solo marginalmente, ma è ovvio e normale che i modelli economici non riescano a tener conto delle variabili politiche, la più importante delle quali riguarda il commercio globale.
Anche i venti della globalizzazione, una politica decisamente mal gestita soprattutto nei Paesi industrializzati ma che tanto ha fatto per far alzare la testa a diverse economie in via di sviluppo, potrebbero infatti aver smesso di soffiare. Non è chiaro cosa accadrà davvero con il nuovo presidente Usa Donald Trump: lo scenario più razionale, e più benevolo, presuppone che non si assistano a nuove iniziative per liberalizzare scambi commerciali e finanziari e che i Paesi avanzati – non si dimentichino le pressioni populiste in Europa – inizino un processo di “consolidamento”, spostando altrove il motore (o le speranze) della crescita.
Non si possono però escludere in partenza veri e propri passi indietro, soprattutto nei confronti della Cina che al momento sembra assumere negli Stati Uniti, inevitabilmente leader di questo movimento antiglobalizzazione, il ruolo di “grande avversario”. Una frenata di Pechino più brusca del previsto danneggerebbe sia la regione economica dell’Asean, sia molti Paesi dell’Africa che forniscono all’area le necessarie materie prime. Proprio l’Africa subsahariana, che per molti anni è cresciuta rapidamente (tra il 5 e il 7%) e avrebbe potuto in questo periodo tentare il salto finale verso una maggiore integrazione nell’economia globale, è invece destinata – sempre secondo le previsioni dell’Fmi – a vedere la crescita frenare fino al 3%, un livello sicuramente insufficiente per economie così povere. È proprio il caso dell’Africa, però, a mostrare come l’analisi per grandi aree possa far sfuggire non pochi casi interessanti. Se il continente, infatti, è destinato a rallentare, alcune singole economie potrebbero invece fare molto bene.
Tra i 30 Paesi individuati per esempio, da Credit Suisse come la “Nuova frontiera” – selezionati in realtà non solo in base alle potenzialità di crescita – e che comprendono anche alcune economie europee di nuova industrializzazione come Romania, Bulgaria e Croazia e altre ben note come l’Argentina o il Vietnam, undici sono africani. Possono forse apparire scontati il Botswana, Mauritius, la Namibia e forse la Nigeria (e nell’area sahariana la Tunisia e il Marocco); altri sono invece un po’ una sorpresa: lo Zambia, la Costa d’Avorio, il Kenya, il Ghana. Così come stupisce vedere, passando ad altre aree, la presenza del Pakistan, del Bangladesh e, per motivi diversi, dell’Ucraina ancora dilaniata.
Le previsioni – con tutti i loro limiti – sono molto eloquenti. Se i Paesi emergenti (Cina esclusa) potranno crescere nel periodo tra il 2016-2020 a un ritmo annuo composto del 3,5% – sono cifre che Alexander Redman e Arun Sai di Credit Suisse calcolano sui dati del Fondo monetario internazionale – i Paesi della Nuova frontiera potranno crescere del 3,8% con qualche interessante sorpresa: la Costa d’Avorio (7,7% annuo composto), il Bangladesh (6,8%), il Kenya (6,3%), il Vietnam (6,2%), il Ghana (5,9%) e la Namibia (5,2%), lo Sri Lanka e il Pakistan (5% entrambi). Saranno queste economie, presto, nel cono d’attenzione dei grandi investitori. Non al centro, ma non più all’esterno.
LE TENDENZE MACROECONOMICHE Il progressivo rallentamento dei programmi di e il protezionismo Usa dovrebbero frenare il credito verso i Paesi in via di sviluppo