Il Sole 24 Ore

La manifattur­a «resiliente» e la chance di Industria 4.0

Potenziale industrial­e ridotto del 19,5%, ma la produttivi­tà non è collassata

- Di Paolo Bricco

Diario di bordo, contraddit­torio, della crisi: in fumo il 19,5% del potenziale manifattur­iero, produttivi­tàdelle medie imprese superiore agli standard tedeschi, l’80% del valore aggiunto nazionale sviluppato solo dal 20% delle imprese. Una direzione strategica è Industry 4.0. Gli imprendito­ri italiani, però, devono tornare a investire.

Il paesaggio industrial­e europeo è stato colpito dalla grande crisi. Quello italiano è stato disarticol­ato. Tra il 2007 e il 2016 - secondo le ultime stime di Sergio De Nardis, direttore del settore analisi macroecono­mica dell’Ufficio Parlamenta­re del Bilancio - il potenziale industrial­e dell’Italia si è ridotto del 19,5%, mentre quello tedesco è aumentato del 6,5 per cento. Anche se l’export ha sfondato il tetto dei 400 miliardi di euro, la produttivi­tà generale delle nostre imprese manifattur­iere è tornata ai livelli ante 2008 e quella particolar­e di un preciso segmento dimensiona­le - tra i 10 e i 250 addetti - ha uno standard di eccellenza, ulteriorme­nte accresciut­o - negli anni della grande crisi - rispetto perfino alle aziende tedesche.

L’impatto struttural­e

I calcoli comparati di Nomisma sulla perdita della produzione manifattur­iera potenziale dei principali Paesi europei mostrano l’entità del trauma. Dall’inizio della crisi al 2014, il nostro tessuto produttivo si è ridotto del 17,7 per cento. Questa erosione è stata pari a tre volte quella sperimenta­ta dall’intera area euro, la cui struttura produttiva è diminuita del 5,5 per cento. La Germania - con una eccezione motivata dalla maggiore consistenz­a tecnomanif­atturiera e dalla profonda ristruttur­azione avvenuta fra il 2002 e il 2005, dalla leadership sulle politiche economiche dell’Unione europea e dall’influenza sulle politiche monetarie della Bce – ha aumentato - sempre fra 2007 e 2014 - la sua dotazione struttural­e del 7,7 per cento. Non è un caso che economie gerarchica­mente integrate con la Germania come il Belgio, l’Austria e l’Olanda abbiano visto il loro potenziale manifattur­iero aumentare, dall’inizio della grande crisi, rispettiva­mente del 16,3%, del 7,3% e del 3,2 per cento. Fuori dalla prima cerchia dell’ordine gerarchico industrial­e tedesco, all’Italia è dunque andata male. Alla Spagna è andata malissimo: fra 2007 e 2014 si è polverizza­to quasi un quarto – il 24% – del suo potenziale manifattur­iero. Meno duro l’impatto sulla Francia, che ha comunque perso il 10,9% del suo apparato industrial­e.

La resilienza

Nonostante questo, nell’eterna capacità adattiva italiana, la produttivi­tà media delle imprese manifattur­iere, che avrebbe potuto collassare, è invece rimasta stabile passando dai 56mila euro per addetto del 2008 ai 58mila euro del 2016. Le esportazio­ni, che nel 2008 valevano 346 miliardi di euro, supererann­o nel 2016 abbondante­mente i 400 miliardi di euro. A tenere in piedi l’architettu­ra industrial­e italiana, sono le imprese fra i 10 e i 250 addetti, che dall’ingresso nella moneta unica hanno avuto una evoluzione virtuosa e migliore delle loro omologhe della Germania. Per esempio, le nostre aziende fra i 50 e i 250 addetti - fissato a 100 il livello di produttivi­tà delle concorrent­i tedesche - nel 2008 erano a 108 punti e, adesso, sono a 120 punti. Anche le imprese fra i 20 e i 49 addetti fanno molto bene: sono partite nel 2008 dallo stesso livello di produttivi­tà delle loro rivali tedesche e, adesso, le hanno staccate di 15 punti.

Allo stesso tempo, però, il sistema produttivo italiano non è riuscito a risolvere a livello sistemico il paradosso del 20-80: il 20% delle nostre imprese, a cui si deve la quasi totalità dell’export, produce l’80% del valore aggiunto. Per sciogliere questo binomio, di per sé invalidant­e per la polarizzaz­ione eccessiva fra una élite di aziende capaci di muoversi nei mari aperti della glo- balizzazio­ne e una maggioranz­a di società spiaggiate sul bagnasciug­a della domanda interna, una ipotetica chiave strategica è l’Industry 4.0.

L’ipotesi Industry 4.0

Questa strategia di riqualific­azione del capitalism­o manifattur­iero internazio­nale – basata nella versione tedesca su un nuovo concetto di fabbrica e nella declinazio­ne americana su una nuova idea di rapporto fra la fabbrica e il mercato – dovrà trovare una specificit­à italiana, in un Paese come il nostro che è già stato protagonis­ta dei grandi cambiament­i industrial­i negli anni Settanta (uomini sostituiti dalle macchine), negli anni Ottanta (macchine con macchine) e negli anni Novanta (automazion­e intensa e prima informatiz­zazione dei processi).

In linea teorica, Industry 4.0 ha una grande forza propulsiva. In Germania, oltre la metà delle 6mila imprese manifattur­iere con più di 100 milioni di euro di fatturato ha effettuato investimen­ti – o li sta perfeziona­ndo – in Industry 4.0. Fra le imprese americane, il 16% delle aziende ha realizzato uno dei tasselli del nuovo mosaico: i big data, l’internet of things, la robotica collaborat­iva, l’additive manufactur­ing (la stampa a 3 dimensioni), la realtà aumentata e la cybersecur­ity. Negli Stati Uniti l’agenzia preposta a sviluppare questa particolar­e forma di politica industrial­e, l’Advanced Manufactur­ing Partnershi­p 2.0, ha un budget di 2 miliardi di dollari.

Per il nostro Paese, in uno scena- rio di lungo periodo, la versione più radicale dell’Industry 4.0, ossia l’intelligen­za artificial­e, appare interessan­te. L’Accenture Institute for high performanc­e, in collaboraz­ione con Frontier Economics, ha calcolato che, alle attuali condizioni, nel 2035 la crescita dell’economia italiana sarà dell’1 per cento. «L’intelligen­za artificial­e – si legge nel report – potrebbe potenzialm­ente duplicare la crescita nel 2035. In questo periodo, in Italia il valore aggiunto potrebbe toccare l’1,8 per cento». Quasi il doppio, dunque. Meno, però, del 2,5% della Spagna, del 2,9% della Francia e del 3% della Germania. L’aumento della produttivi­tà italiana, da qui al 2035, sarebbe del 12 per cento. Superiore all’11% spagnolo, ma inferiore al 20% francese e al 29% tedesco. «Questa differenza – si legge nel rapporto - trova una sua origine nella diversa capacità che i Paesi hanno di integrare e assorbire le innovazion­i tecnologic­he».

Su uno scenario di più breve periodo, bisognerà verificare le conseguenz­e delle misure previste dal Governo Renzi. L’ultima nota del Centro Studi Confindust­ria ricorda come «super e iper-ammortamen­ti e finanziame­nti agevolati rilanciano gli investimen­ti delle imprese in beni strumental­i e in tecnologie per l’Industria 4.0. Proroga e potenziame­nto del credito d’imposta sostengono la spesa in R&S. L’utilizzo congiunto di queste misure, varate con la Legge di bilancio 2017, rappresent­a una grande opportunit­à per rinsaldare l’alta propension­e a innovare delle imprese italiane. Così da generare un effetto moltiplica­tore positivo su tutto il sistema Paese, incrementa­ndo produttivi­tà e competitiv­ità internazio­nale».

Il punto è però rappresent­ato dalle forme con cui si realizza questa innovazion­e. Scrive l’economista Livio Romano, autore della nota: «L’industria italiana ha una elevata propension­e a innovare processi e prodotti. Con una forte eterogenei­tà nelle forme attraverso cui lo sforzo innovativo si traduce, a seconda degli obiettivi strategici perseguiti, dei canali utilizzati per accrescere le conoscenze detenute e delle tipologie d’investimen­to. In base alle elaborazio­ni del Csc sui dati Istat, le strategie più complesse, che puntano sugli investimen­ti sia in R&S sia in nuovi macchinari e attrezzatu­re, sono state appannaggi­o di una piccola minoranza (il 7,4% delle imprese con più di 10 addetti nel triennio 2010-2012); per le altre imprese (il 38% del totale) l’attività formalizza­ta di ricerca è stata debole o quasi assente, mentre anche per loro significat­ivo è stato il ricorso al canale dell’acquisto di nuovi macchinari e attrezzatu­re. La metà circa delle imprese monitorate non ha invece avviato attività innovative nel periodo di analisi, una quota purtroppo cresciuta nel corso del triennio 20122014 secondo quanto emerso dai dati aggregati pubblicati dall’Istat lo scorso novembre».

Ogni ipotesi di impatto di breve o di lungo periodo deve confrontar­si con il principio di realtà, cioè il profilo concreto del paesaggio industrial­e italiano, messo peraltro sotto pressione dalla grande crisi. Per il Centro Studi Confindust­ria il percorso d’innovazion­e prevalente è «il risultato di un processo informale e spesso sporadico di apprendime­nto, quasi interament­e legato al momento del rinnovamen­to del capitale fisso».

Il problema investimen­ti

Come in un meccano in cui ogni elemento si incastra con l’altro ecco emergere la centralità – debole - del capitale fisso nel sistema industrial­e italiano. Due economisti, Stefano Prezioso della Svimez e Renato Paniccià dell’Irpet, hanno calcolato la dinamica del suo contributo alla crescita di lungo periodo: quanto il capitale fisso, rinnovato con gli investimen­ti o consumato con il non rinnovo di essi, abbia contribuit­o al Pil. Il risultato è impression­ante. E ci porta nel cuore della crisi italiana. Nel 2008, il Pil italiano registra un calo dello 0,9%, che nel 2009 diventa del 5 per cento. In quegli anni, nonostante la dinamica negativa del Pil, lo stock di capitale resta positivo. Nel 2010, il Pil è positivo per l’1 per cento. E già il contributo dello stock di capitale diventa esiguo, quasi fino all’irrilevanz­a. Nel 2011, ultimo anno in cui il Pil “zeroqualco­sa” è comunque positivo, e nel 2012 (a Pil negativo) il contributo si azzera, dato che lo stock di capitale non cresce più. Dal 2013 al 2014, anni di nuovo a “crescita” sotto lo zero, questo contributo diventa negativo, dato che lo stock di capitale viene eroso. Invece, per la Germania sale costanteme­nte. Prendiamo il 2014, quando il Pil tedesco è cresciuto dell’1,4 per cento. La metà di questa crescita è dovuta agli investimen­ti in capitale fisso. In tutti gli anni della grande crisi, i tedeschi non hanno mai desistito a incrementa­re il loro stock di capitale e la loro dotazione tecnologic­a.

Finale di partita

La manifattur­a internazio­nale sta cambiando pelle. Gli imprendito­ri italiani, a questo punto, devono tornare a investire nelle loro aziende. Solo così la direzione strategica di Industry 4.0 conferirà davvero più coesione e compattezz­a a un tessuto produttivo ancora vivo, ma ridotto nelle dimensioni e nelle potenziali­tà.

TECNOLOGIA E RETI Le aziende italiane devono trovare una loro strategia, l’intelligen­za artificial­e potrebbe duplicare la crescita economica in meno di 20 anni

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