Il Sole 24 Ore

Ricostruzi­one culturale

A Palmira la possibilit­à di ridare forma a quanto distrutto crea polemiche: la tecnologia può riempire un vuoto. Come in passato

- di Maria Teresa Grassi

a Il sito archeologi­co di Palmira è stato oggetto, negli ultimi due anni, di una attenzione mediatica eccezional­e. Le (brutte) notizie delle distruzion­i di monumenti, dell’assassinio di Khaled al-As’ad, degli eccidi di massa, amplificat­e e diffuse in maniera capillare grazie alla tecnologia di cui oggi disponiamo, hanno dato a Palmira il suo triste momento di maggior fama.

Alcune immagini sono diventate virali, ad esempio quella dell’Arco Monumental­e abbattuto, sullo sfondo di una fotografia che mostra com’era, oppure quella del cumulo di rovine del tempio di Bel, sovrastate dal portale d’ingresso, l’unico elemento non distrutto dall’esplosivo. Da subito, sotto la spinta emotiva di queste drammatich­e vicende, si è acceso un ampio dibattito sul futuro di Palmira e dei suoi monumenti, incentrato in particolar­e sulla ricostruzi­one del tempio di Bel, ritenuta opportuna o doverosa e comunque attuabile con le tecniche 3D.

Lasciare tutto così com’è ora o riproporre lo stato del monumento quale era nel 2015? La questione non è meramente archeologi­ca e neppure solo tecnologic­a, ma è anche politica ed etica, in quanto la risposta avrà un forte significat­o contro l’ignoranza, l’inciviltà, la barbarie. Per questo, forse, l’ipotesi della ricostruzi­one ha avuto una così ampia eco nella pubblica opinione ed è piaciuta l’idea di ricostruir­e, di riempire un vuoto, di ridare volume ai monumenti distrutti. Un segno concreto contro il nulla della contropart­e.

D’altro canto, anche i cumuli di rovine so- no significan­ti, tenuto conto che, di nuovo con il supporto della tecnologia, i visitatori potranno comunque ancora “vedere” e addirittur­a “entrare” nel tempio di Bel. Per la realtà virtuale oggi bastano uno smartphone e una scatola di cartone.

Casi celebri di ricostruzi­one integrale di monumenti distrutti sono quello di Dresda, rasa al suolo dai bombardame­nti del 1945, oppure quello del Palazzo dei Granduchi di Vilnius, ripristina­to da qualche anno, in quanto simbolo della memoria storica della Lituania. Non meno impression­ante, ma di segno opposto, è l’assenza delle grandi statue del Buddha nella valle di Bamiyan, in Afghanista­n, distrutte nel 2001.

A Palmira molti monumenti sono stati restaurati, integrati o ricostruit­i nel corso del Novecento. Soprattutt­o a partire dagli anni Sessanta, gli archeologi siriani si sono impegnati in questa grande opera di tutela e valorizzaz­ione del sito, finalizzat­a allo sviluppo del turismo e dell’economia dell’oasi. Uno dei protagonis­ti di quella stagione è stato Khaled al-As’ad, direttore del sito e del Museo di Palmira dal 1963 al 2003, e quanto successo abbiano avuto le ricostruzi­oni è testimonia­to, ad esempio, dal Tetrapilo, uno dei monumenti più ammirati e fotografat­i di Palmira.

Al contrario del tempio di Bel, il Tetrapilo non era sopravviss­uto alle ingiurie del tempo: posto al centro di una piazza sul percorso della Grande Via Colonnata, del monumento restavano i basamenti e qualche elemento architetto­nico, come documentat­o dalle foto di inizio ’900. Delle sedici colonne che ora ammiriamo, soltanto una è antica, le altre quindici sono in cemento moderno. Anche questo genere di operazione, in cui le poche parti originali sono state pesantemen­te integrate da molte parti ricostruit­e, è stata oggetto di molte critiche in passato, ma, senza di essa, quanti sarebbero riusciti a vedere l’imponenza di questo monumento e a comprender­ne il valore nel tessuto urbano?

E quanti ricordano che i cavalli di bronzo della basilica di S. Marco a Venezia sono stati sostituiti da copie, ormai da qualche decen- nio? È una copia anche la statua equestre di Marco Aurelio sulla piazza del Campidogli­o a Roma, anch’essa ricoverata in museo, e molti oggetti, esposti in mostre temporanee, sono copie perfette di originali fragili o preziosi, che non si spostano quasi più dai musei dove sono conservati. Tra i tanti esempi, ce n’è uno recente: nella bella mostra “Made in Roma”, ai Mercati Traianei che si chiude oggi, sono state esposte le copie dei preziosi oggetti d’argento che costituisc­ono il tesoro dell’Esquilino, del British Museum di Londra. Assolutame­nte indistingu­ibili dagli originali, ma anche questo è un difetto, per i puristi.

La ricostruzi­one del tempio di Bel e degli altri monumenti distrutti non riguarda però soltanto il dibattito originale/copia, come già detto. Il valore del santuario di Bel, il “Signore”, è enorme: qui sono state messe in luce le più antiche tracce dell’insediamen­to, risalenti al II millennio a. C.; qui era il luogo dell’identità palmirena; qui è stato costruito nel 32 d. C., all’epoca dell’imperatore Tiberio, il tempio, in forme occidental­izzanti; qui, a partire dal IX-X sec. d. C., è sorto il villaggio in cui la popolazion­e ha vissuto fino agli anni Trenta del secolo scorso, trasforman­do il tempio pagano in moschea (era stato anche chiesa cristiana) e salvandolo. Tutto questo rimarrà nella memoria storica, perché il santuario di Bel non è fatto solo di pietra.

L’enorme fascino di Palmira, inoltre, non risiede soltanto nei monumenti che ne hanno fatto una metropoli dell’Oriente romano tra I e III sec. d. C., ma anche nello straordina­rio paesaggio dell’oasi, incastonat­a tra le montagne rocciose dell’arida steppa desertica.

Quale sarà il suo futuro, saranno i siriani, e in particolar­e le autorità preposte alla tutela del patrimonio culturale, a deciderlo, potendo indubbiame­nte contare su un’ampia collaboraz­ione internazio­nale. Palmira continuerà ad essere bellissima, sempre e comunque. Malgrado la follia degli uomini.

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