Se arrivano gli alieni
no all’interno bardati come nei laboratori biologici di massima sicurezza. La squadra terrestre che entra nell’uovo cosmico stazionato in Montana è formata da militari che accompagnano una linguista ed un fisico. A loro è affidato il compito di stabilire un contatto con gli alieni per capire quali siano le loro intenzioni. Louise Banks, un’autorità nel campo delle traduzioni, è davanti ad un grande schermo al di là del quale si vedono figure sfuocate simili a enormi polipi. Si sentono fruscii, schiocchi, suoni gutturali. Louise è terrorizzata ma, al tempo stesso, affascinata dalla sfida titanica: comunicare con un’altra civiltà della quale non sa assolutamente nulla. Peccato che Umberto Eco non sia più con noi a commentare questa avventura linguistica totale. Chissà da dove avrebbe cominciato lui per intavolare una conversazione aliena. Come ci si può rapportare con esseri che sono frutto di un’altra evoluzione e che forse hanno sviluppato abilità che noi non abbiamo? Quali saranno le loro capacità sensoriali? Vedono? Sentono? Come trovare un punto in comune per stabilire un contatto?
Pensiamo a quanto sia difficile comunicare con umani che appartengono a civiltà diverse dalla nostra e quanti errori, spesso tragici, siano da imputare a mancanza di comprensione reciproca. Qui non parliamo di altri umani, i visitatori sono alieni. Le loro astronavi testimoniano la l oro superiorità tecnologica, quindi sono sicuramente evoluti, ma i metodi di comunicazione sono tutti da inventare.
Arrival è una grande rappresentazione della difficoltà di capire gli altri e della paura che genera in noi ciò che non riusciamo a inserire nei nostri schemi mentali.
Dopo una prima visita di ricognizione, disperando di poter avere una interazione so- nora, Louise decide di portarsi una lavagnetta. La tecnologia non è molto sofisticata, ma una linguista senza punti di riferimento sente il bisogno di partire dall’inizio. Emozionata, scrive: “HUMAN”, la parola che le sembra una adeguata descrizione di se stessa. Louise non sa se i suoi interlocutori capiranno, spera solo che gli alieni rispondano con un loro linguaggio scritto. Ma la linguista sente anche il bisogno di un contatto fisico con i visitatori e, liberatasi delle tute protettive, si avvicina e tocca lo schermo divisorio. Un alieno (oppure è una aliena?) risponde e il suo tentacolo si apre a stella. Inizia così il dialogo tra la linguista e gli alieni che, toccando lo schermo, schizzano inchiostro che si organizza in forme circolari, dove i tratti diventano più o meno spessi ed elaborati a significare parole e frasi graficamente molto eleganti, ma di non facile interpretazione.
Le macchie si ripetono in strutture circolari diverse e Luise cerca di trovare un significato per costruire la parvenza di un dizionario alieno. Focalizzando la sua attenzione su queste frasi circolari, che non hanno un principio nè una fine, Louise è colpita da questa ortografia non lineare e inizia a sospettare che la scrittura rifletta il modo di pensare degli alieni. In effetti, si tratta della rivisitazione di una teoria linguistica della prima metà del ’900, propugnata da Benjamin Lee Wolf che, rifacendosi al suo maestro Edward Safir, sostenne l’esistenza di una relazione molto stretta tra il linguaggio e il modo di vedere il mondo. Il modo di esprimere i propri pensieri ha una profonda influenza sui pensieri stessi. La percezione della realtà è mediata dal linguaggio, cambiamo il linguaggio e cambierà la nostra visione della realtà. L’hanno definita relatività linguistica e appartiene alla numerosa famiglia delle teorie che hanno ricevuto più critiche che consensi. Tuttavia, Luise non ha altro a cui attaccarsi per cercare una via di comunicazione con i visitatori. Se scrivono in questo modo circolare gli alieni devono avere una visione circol
are della realtà, cosa che deve riflettersi anche nel loro concetto di tempo. Alieni che vogliono dirci qualcosa sul futuro mentre Louise rivive il passato che per lei è segnato dalla perdita della figlia.
Mi piace moltissimo lo stile di Louise, così rigorosa e così femminile. Immersa, suo malgrado, in un ambiente militare (e maschile), voglioso di menare le mani, lei si confronta con l’enorme problema senza mai alzare la voce. A quelli che le dicono “tu hai risolto altri casi in molto meno tempo” risponde che si trattava di lingue note, qui è tutto da capire. Lo sforzo di comprensione del linguaggio alieno non avviene in un clima sereno. Mentre scienziati di tutte le nazionalità fanno prodigi di valore, man mano che il tempo passa, le potenze mondiali diventano sempre più nervose davanti alla minaccia di una invasione. Con una logica tipicamente umana, tutti i capi di stato maggiore delle nazioni coinvolte sono convinti che, se gli alieni si sono dati la pena di venire a trovarci, significa che hanno intenzioni ostili. La frase più memorabile del film è pronunciata da una annunciatrice cinese che dice perentoriamente “la Repubblica Popolare Cinese ha dichiarato guerra agli alieni”. Sarà Louise, che parla perfettamente il cinese, a vivere una delle poche scene concitate del film per convincere il premier che è meglio lasciar perdere. Ovviamente non è elegante raccontare come va a finire. E poi, con un tempo che si attorciglia su se stesso, chi può dire dove sia la fine e dove l’inizio?