Le parole (violate) del mercato
In che senso il cedimento del mercato immobiliare che ha scatenato il collasso del sistema finanziario del 2007-2008 è stato essenzialmente un «cedimento linguistico»? Ecco la tesi e insieme la domanda di fondo di questo complesso, ardito, incompiuto eppure importante saggio di Arjun Appadurai, antropologo della modernità. Nel senso che, semplificando al massimo, il carattere di promessa dei contratti derivati è stato sistematicamente violato nell’interesse di pochi e ai danni di molti. È ora dunque di immaginare nuove forme che rispettino una concezione progressista della finanza, della ricchezza e del rischio, giacché è definitivamente crollato il castello di promesse espresse dalle parole dei contratti, che in qualche modo offrono una dimensione di certezza in un mondo, quello del capitalismo, dominato alle sue origini dall’incertezza.
Fu l’ethos protestante a mettere in moto il moderno capitalismo: la nota interpretazio- ne di Max Weber viene qui ripresa da Appadurai e fatta pilone portante della sua stessa concezione. Alla certezza del credente calvinista nei confronti dell’esistenza della grazia divina corrisponde l’incertezza totale e mai risolvibile di chi ne sarà destinatario. Ora, il lavorare a maggior gloria di Dio, come se lo si ringraziasse a priori della destinazione di una grazia di cui nulla si sa, è la scommessa del protocapitalista - a quei tempi ancora rigoroso, probo, parsimonioso - che agisce scommettendo sulla propria salvezza, in condizioni di incertezza radicale, come se il destino facesse di lui un predestinato. Ma la scommessa, ricorda Appadurai inserendo a questo punto della storia il filosofo del linguaggio J.L. Austin, è un classico atto linguistico performativo tramite il quale il fatto si compie nel momento in cui lo si enuncia. Il gioco poi viene ulteriormente complicato dall’inserimento di nuove pedine: Durkheim con il suo interesse per il rituale che fonda la società aborigena australiana, Judith Butler e la sua idea di «retro per forma ti vità », secondo la quale gli atti linguistici possono venire usati anche in modo da modificare le condizioni di applicazione che essi sembravano presupporre; e poi Marcel Mauss e Derrida, ognuno col suo dono, e via così.
La messa in gioco degli autori classici, soprattutto Weber e Durkheim, serve ad Appadurai, allorché nel testo ritorna, dopo lungo girovagare, alla finanza, per farne il perno di una nuova concezione dei derivati, ossia contratti o titoli il cui prezzo sia basato sul valore di mercato di un altro strumento finanziario. In tale ambito infatti il mercato ha preso il posto che in Durkheim aveva la società, intesa come incontro ritualizzato che produce retroattivamente la possibilità di quello stesso incontro. Laddove i grandi incontri rituali producevano certezza sull’esistenza di quella società, così gli operatori finanziari producono certezze in merito all’esistenza del mercato.
Ulteriore effetto della finanziarizzazione è infine, nel bene e nel male, l’erosione dello status dell’individuo e la creazione di un livello agentivo sociale più elementare: il dividuale. Se individuo è per noi la persona, il sé nel suo insieme, è unità indivisibile del pensiero e della pratica politica, economica e morale, il dividuale distrugge tutto ciò presentandosi quale nuova forma composita, dinamica, vitalistica e processuale, simile al rizoma di Deleuze. Il dividuale mette in crisi l’integrità dell’individuo classico a favore di una sua frantumazione in tratti, aspetti, azioni, condizioni o procedure che hanno luogo in determinati nodi biografici e che risultano combinabili e modificabili. Proiettando la nozione di dividuale sul mondo dei derivati finanziari, Appadurai cerca di connettere quest’ultimo mondo, fondato finora sulla logica della divi dualizzazi on editi po predatorio e «tossico», con una concezione equa e progressista della finanza che assorba fenomeni come gli spread, la volatilità, la liquidità e il rischio, immaginando nuove forme di assunzione dello stesso che creino ricchezze socialmente condivisibili. Così che persino il debito, non più demonizzato come dai movimenti di Occupy e simili generi, dalla sua monetarizzazione, un profitto per tutti noi dividuali che produciamo debito. Per pensare tutto ciò le discipline dell’economia e della finanza non bastano più: c’è bisogno che nel caveau della banca scenda un antropologo – lo spiega Piero Vereni nella sua illuminante introduzione, coadiuvata dall’ottima traduzione di Francesco Peri – che si incarichi di produrre una mutazione disciplinare. Questo soprattutto perché l’economia non ha mai colto la dimensione simbolica del denaro, che non ci attira tanto perché si possono con esso comprare (o non comprare, direbbe Michael Sandel) tante cose, quanto per il suo statuto di oggetto sconfinato, di calamita dal potere illimitato. Ma è proprio su di esso che si fonda la macchina dei prodotti finanziari derivati, la quale ha bisogno per essere compresa e maneggiata di un nuovo campo di studi sociali in grado di combinare gli approcci dispersi in ambito economico, antropologico e sociologico.