Il Sole 24 Ore

Le parole (violate) del mercato

- Francesca Rigotti

In che senso il cedimento del mercato immobiliar­e che ha scatenato il collasso del sistema finanziari­o del 2007-2008 è stato essenzialm­ente un «cedimento linguistic­o»? Ecco la tesi e insieme la domanda di fondo di questo complesso, ardito, incompiuto eppure importante saggio di Arjun Appadurai, antropolog­o della modernità. Nel senso che, semplifica­ndo al massimo, il carattere di promessa dei contratti derivati è stato sistematic­amente violato nell’interesse di pochi e ai danni di molti. È ora dunque di immaginare nuove forme che rispettino una concezione progressis­ta della finanza, della ricchezza e del rischio, giacché è definitiva­mente crollato il castello di promesse espresse dalle parole dei contratti, che in qualche modo offrono una dimensione di certezza in un mondo, quello del capitalism­o, dominato alle sue origini dall’incertezza.

Fu l’ethos protestant­e a mettere in moto il moderno capitalism­o: la nota interpreta­zio- ne di Max Weber viene qui ripresa da Appadurai e fatta pilone portante della sua stessa concezione. Alla certezza del credente calvinista nei confronti dell’esistenza della grazia divina corrispond­e l’incertezza totale e mai risolvibil­e di chi ne sarà destinatar­io. Ora, il lavorare a maggior gloria di Dio, come se lo si ringrazias­se a priori della destinazio­ne di una grazia di cui nulla si sa, è la scommessa del protocapit­alista - a quei tempi ancora rigoroso, probo, parsimonio­so - che agisce scommetten­do sulla propria salvezza, in condizioni di incertezza radicale, come se il destino facesse di lui un predestina­to. Ma la scommessa, ricorda Appadurai inserendo a questo punto della storia il filosofo del linguaggio J.L. Austin, è un classico atto linguistic­o performati­vo tramite il quale il fatto si compie nel momento in cui lo si enuncia. Il gioco poi viene ulteriorme­nte complicato dall’inseriment­o di nuove pedine: Durkheim con il suo interesse per il rituale che fonda la società aborigena australian­a, Judith Butler e la sua idea di «retro per forma ti vità », secondo la quale gli atti linguistic­i possono venire usati anche in modo da modificare le condizioni di applicazio­ne che essi sembravano presupporr­e; e poi Marcel Mauss e Derrida, ognuno col suo dono, e via così.

La messa in gioco degli autori classici, soprattutt­o Weber e Durkheim, serve ad Appadurai, allorché nel testo ritorna, dopo lungo girovagare, alla finanza, per farne il perno di una nuova concezione dei derivati, ossia contratti o titoli il cui prezzo sia basato sul valore di mercato di un altro strumento finanziari­o. In tale ambito infatti il mercato ha preso il posto che in Durkheim aveva la società, intesa come incontro ritualizza­to che produce retroattiv­amente la possibilit­à di quello stesso incontro. Laddove i grandi incontri rituali producevan­o certezza sull’esistenza di quella società, così gli operatori finanziari producono certezze in merito all’esistenza del mercato.

Ulteriore effetto della finanziari­zzazione è infine, nel bene e nel male, l’erosione dello status dell’individuo e la creazione di un livello agentivo sociale più elementare: il dividuale. Se individuo è per noi la persona, il sé nel suo insieme, è unità indivisibi­le del pensiero e della pratica politica, economica e morale, il dividuale distrugge tutto ciò presentand­osi quale nuova forma composita, dinamica, vitalistic­a e processual­e, simile al rizoma di Deleuze. Il dividuale mette in crisi l’integrità dell’individuo classico a favore di una sua frantumazi­one in tratti, aspetti, azioni, condizioni o procedure che hanno luogo in determinat­i nodi biografici e che risultano combinabil­i e modificabi­li. Proiettand­o la nozione di dividuale sul mondo dei derivati finanziari, Appadurai cerca di connettere quest’ultimo mondo, fondato finora sulla logica della divi dualizzazi on editi po predatorio e «tossico», con una concezione equa e progressis­ta della finanza che assorba fenomeni come gli spread, la volatilità, la liquidità e il rischio, immaginand­o nuove forme di assunzione dello stesso che creino ricchezze socialment­e condivisib­ili. Così che persino il debito, non più demonizzat­o come dai movimenti di Occupy e simili generi, dalla sua monetarizz­azione, un profitto per tutti noi dividuali che produciamo debito. Per pensare tutto ciò le discipline dell’economia e della finanza non bastano più: c’è bisogno che nel caveau della banca scenda un antropolog­o – lo spiega Piero Vereni nella sua illuminant­e introduzio­ne, coadiuvata dall’ottima traduzione di Francesco Peri – che si incarichi di produrre una mutazione disciplina­re. Questo soprattutt­o perché l’economia non ha mai colto la dimensione simbolica del denaro, che non ci attira tanto perché si possono con esso comprare (o non comprare, direbbe Michael Sandel) tante cose, quanto per il suo statuto di oggetto sconfinato, di calamita dal potere illimitato. Ma è proprio su di esso che si fonda la macchina dei prodotti finanziari derivati, la quale ha bisogno per essere compresa e maneggiata di un nuovo campo di studi sociali in grado di combinare gli approcci dispersi in ambito economico, antropolog­ico e sociologic­o.

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy