Compleanno con svastica
Incentrato su un anziano ex-ufficiale nazista che tiene ogni anno una sinistra festicciola per celebrare il compleanno di Himmler, nella casa-mausoleo in cui abita con le sorelle, Prima della pensione si presenta come uno dei testi più “politici” di Thomas Bernhard. Tratteggiando la torva figura di Rudolf Höller, giudice ormai prossimo al ritiro, querulo, lamentoso come tanti grandi vecchi bernhardiani, per nulla pentito della sua militanza nelle SS, anzi fiero di avere fatto il suo dovere fino in fondo, l’autore austriaco pare soprattutto voler denunciare delle oscure costanti dell’anima tedesca.
Con livida ferocia, Bernhard fa del protagonista la cupa incarnazione di un delirante sogno autoritario, divorato dal rimpianto di un perduto ordine del mondo, perso nei propri folli rituali. Ma Höller, spalleggiato dalla sorella Vera, con cui ha un legame morboso, e silenziosamente osteggiato da Clara, l’altra sorella paralitica, che si dichiara di sinistra, non è solo l’emblema di una fede nostalgica: il suo oscuro universo riaffiora da un tempo ormai lontano, invade il presente ma si proietta anche in un improbabile futuro, in cui quelli che la pensano come lui potranno uscire di nuovo allo scoperto.
In realtà, tuttavia, Prima della pensione non fa che rendere spasmodicamente manifesto qualcosa che è implicito, sotto altre vesti, in molte opere di Bernhard. Ciò che anche qui gli interessa non è tanto il nazismo quale circostanza storica, ma quale espressione di una patologia dello spirito. Come in Ritter, Dene, Voss – la pièce cui più si avvicina – questo inquietante spaccato domestico pone in luce più che altro la maniacale sottomissione a invadenti memorie famigliari, le ottuse influenze di un padre gretto e conformista, l’incapacità - individuale e collettiva - di riscattarsi dal passato.
Non a caso, in queste vicende, assumono un ruolo determinante le case, quelle residenze-prigioni che passano intatte da una generazione all’altra, simboli di un’incapacità di cambiamento. Anche nella raffinata messinscena realizzata dalla compagnia Le belle bandiere l’ambientazione è fondamentale: quello spazio semi-buio in cui si intravedono arredi ugualmente scuri, sotto un lampadario di cristallo che incombe ma non rischiara, dove degli indumenti appesi spiccano come presenze immateriali, più che un luogo fisico è una penombra mentale, un crocevia di fantasmi della psiche. Rinunciando magari a qualcuno di quegli umori acremente beffardi che sono tipici della scrittura di Bernhard, la regia di Elena Bucci e Marco Sgrosso punta sui toni stralunati, sulle atmosfere sottilmente spettrali, le luci innaturali, un pianoforte che sembra suonare da solo. Parole e gesti si caricano di risvolti metaforici, le allusioni alla finzione rappresentativa («da molti anni ormai recitiamo la nostra parte») scivolano a tratti verso una vaga astrazione meta-teatrale: e tuttavia quegli sproloqui sulla fine della democrazia, sull’atteso ritorno di ideologie illiberali sembrano assumere, oggi, una nuova attualità che qualche anno fa non avevano.
Lo spettacolo in scena all’Arena del Sole di Bologna poggia anche su un’impeccabile qualità interpretativa: la Bucci disegna con perfida eleganza una Vera trasognata, trepidante nelle esternazioni di un credo insensato e vacuamente ripetitivo, ingabbiato nei luoghi comuni del più vieto conservatorismo: la sua amorevole rivisitazione dell’album fotografico in cui il fratello appare in veste di fucilatore e comandante di un lager mette i brividi. Elisabetta Vergani è invece una Clara aguzza, tagliente, efficace nel chiudersi in un rabbioso mutismo. Ma il più bernhardiano dei tre mi è parso Sgrosso, che dosa con grande misura gli accenti caricaturali e quelli minacciosi, facendo di Höller un’impressionante marionetta in carne e ossa.