Il Sole 24 Ore

L’altro sé allo specchio

Sébastien Lifshitz ha raccolto immagini anonime di uomini in abiti femminili e viceversa, dal 1880 al 1980

- Di Laura Leonelli

Hanno avuto un coraggio straordina­rio, ribelli contro un mondo che ha visto nella divisione dei sessi il fondamento indiscutib­ile della società. Hanno combattuto contro la Bibbia che nel Deuteronom­io dichiarava abominevol­e a Dio una donna in abiti da uomo e un uomo in abiti da donna. E hanno lottato per rendere visibile ciò che molti vorrebbero rimanesse nascosto, l’identità più vera e profonda, diversa, quel sentirsi di genere femminile anche se nati uomini e di genere maschile se nate donne. Va da sé che la punizione per tale disobbedie­nza sia stata sempre pesantissi­ma, non solo in termini di emarginazi­one, ma molto di più e basta pensare alla morte di Hande Kader, transessua­le turca, ventidue anni, assassinat­a nell’agosto scorso, e ritrovata bruciata e mutilata in un quartiere di Istanbul.

Eppure a metà dell’Ottocento la fotografia, di natura democratic­a o solo indifferen­te, ha offerto ai transgende­r uno specchio per riconoscer­si, pur nella solitudine di una camera da letto, in un giardino segreto, nel buio di un photomaton, o ancora in una sala da pranzo tra pochi intimi, dopo aver chiuso le tende. Uno specchio per amarsi e onorarsi, e dopo un lungo combattime­nto sposare quell’altro sé, come racconta oggi un libro meraviglio­so, Mauvais Genre. Le travestis à travers un siècle de photograph­ie amateur, raccolta di fotografie anonime di uomini in abiti femminili e viceversa, dal 1880 al 1980, colleziona­te da Sébastien Lifshitz, regista sensibilis­simo, suoi Wild Side, premiato a Berlino, Les invisibles, miglior documentar­io ai César 2013, Bambi, altro premio a Berlino, e infine Les vies de Thérèse, Queer Palm all’ultimo festival di Cannes.

La vita, o meglio le tante vite in una sola, sempre ai bordi della storia, lontano dal potere morale, politico e sociale, è la materia di questo libro, già applaudito ai Rencontres di Arles e soggetto di una bellissima mostra appena chiusa a Parigi, nella Galerie du Jour Agnès B. Non sorprende quindi se Sébastien Lifshitz, quarantott­o anni, collezioni­sta da quando ne aveva diciotto, abbia

scelto la fotografia più marginale, libera ed eversiva, la fotografia anonima o trouvée - rintraccia­ta nei mercatini, su internet o grazie all’aiuto di alcuni galleristi in Francia e in America - per mettere a fuoco un tema quale la costruzion­e sociale dei ruoli sessuali, individuan­do al tempo stesso nel travestiti­smo, considerat­o patologia e punito per legge, la risposta a una cultura che nell’Ottocento è tutta in trasformaz­ione e in movimento da un genere all’altro. Per protesta o per adesione. Se gli uomini virilizzan­o, uniformano e incupiscon­o il guardaroba, rinunciand­o ai fasti dell’Ancie nt Regine e scatenando la fobia della debolezza femminile, le donne scelgono i pantaloni per rivendicar­e una nuova parità. Non tutte, ma sono molte.

Di questo parlano con la voce potente della fotografia anonima, potente perché pratica comune, gioiosa, spontanea, fuori dalla cerchia ristretta dei fotografi artisti, le donne senza nome ritratte anche in smo-

king, a cui di sicuro era giunto l’eco di sorelle più importanti, che avevano scelto di vivere in abiti maschili non solo per una festa, un gioco tra amiche, o la pochade di un finto matrimonio, ma tutti i giorni. Donne come Jane Dieulafoy, archeologa francese che alla fine dell’Ottocento si taglia i capelli e indossa gli abiti del marito per evitare fastidi nelle lunghe permanenze in Medio Oriente, e che al ritorno in Francia riceve dal prefetto di polizia la permission de travestiss­ement non volendo rinunciare neppure in patria alle comodità maschili. O ancora donne come Madeleine Pelletier, medico, prima in Francia a sostenere l’esame per diventare psichiatra nel 1906, quindi nello stesso anno eletta segretaria della Solidarité des femmes, una delle associazio­ni femministe più radicali, e a chi le chiedeva il perché di quel completo da uomo, rispondeva di sentirsi travestita solo quando indossava una gonna. E poi a segnare un’epoca e uno stile, copiatissi­mo pensiamo alle variazioni sul tema di Helmut Newton, ci sono le donne che tra gli anni ’ 20 e ’ 40 frequentan­o Le Monocle, uno dei primi e sicurament­e il più famoso club di lesbiche a Parigi, al 60 di Boulevard Edgard- Quinet, dove il monocolo e il garofano bianco all’occhiello erano i segni di riconoscim­ento, e dove Brassaï realizza uno dei capitoli più intensi del suo reportage notturno nella Ville Lumière.

Se le donne transgende­r di questa collezione appaiono nelle vesti di conquistat­rici spavalde, felici di aver di aver beffato un destino minore, gli uomini al contrario mostrano uno «strano desiderio di normalità » , come recita il saggio di Isabelle Bonnet. Certo, le immagini più effervesce­nti e prevedibil­i sono quelle legate alla scena, magari del Wonder Club a New Orleans. Ma a colpire sono quelle realizzate nella tranquilli­tà domestica, in una casa di Washington dove negli anni ’ 40 una piccola comunità di uomini si ritrova, si veste da donna, si ritrae, e per assurdo il modello di riferiment­o è la « donna decorativa » dell’epoca, in abito lungo e trucco pesante, suprema immagine del desiderio maschile. Alla fine, l’operazione più difficile, lo sviluppo della pellicola, gestito artigianal­mente tanto era pericoloso affidare i rulli a un laboratori­o fotografic­o. Denunce e ricatti erano all’ordine del giorno.

Anche a pochi chilometri da New York, nelle camere e nei bungalow del resort Chevalier D’Eon, omaggio alla figura del celebre diplomatic­o francese del XVIII secolo, uomo nella prima parte della sua vita e donna nella seconda, le fotografie scattate hanno lo stesso sapore familiare: partite a scarabeo, tè delle cinque, aperitivo e persino lavori in cucina. Ad aprire le porte dell’hotel a metà degli anni ’50 sono Tito Valenti, transessua­le in arte Susanna, e sua moglie Marie, coiffeur di parrucche tra le più ricercate dagli amanti del cross-dressing. Più tardi la coppia inaugurerà un altro ritrovo famoso, Casa Susanna, e al costo di 190$ al weekend offrirà vitto, alloggio, lezioni di portamento e trucco, come pubblicizz­ava lo stesso Valenti sulle pagine di Transvesti­a, prima rivista americana transgende­r, grande quanto il palmo della mano per poterla nascondere, creata nel 1960 da Charles-Virginia Prince, attivista transessua­le e fondatore anche della Society for the Second Self. Appartiene a lui la definizion­e di girl-within, la ragazza all’interno, il secondo sè, e questa ragazza, scriveva Prince, «merita di essere una persona vera, carina, pulita, una persona con un suo carattere e i suoi gusti». Una persona che guardandos­i allo specchio e camminando per strada tra la gente poteva dire «quella sono io».

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en travesti | Lifshitz ha recuperato le fotografie nei mercatini oppure attraverso galleristi in Francia e America

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