Il Sole 24 Ore

La questione irrisolta del capitalism­o italiano

- Di Roberto Napoletano

Gli analisti promuovono la fusione tra Luxottica e Essilor e i titoli volano in Borsa. L’Europa ha il suo campione mondiale dell’occhialeri­a, 50 miliardi di capitalizz­azione, 140mila dipendenti, vendite in 150 Paesi, e si prepara alla campagna sui mercati emergenti. Leonardo Del Vecchio, 81 anni compiuti, un’infanzia nel collegio dei Martinitt e un’adolescenz­a da garzone alla Johnson, ha costruito dal nulla qualcosa di unico nel mondo ed è un simbolo di prima grandezza del Made in Italy. Ha detto la sua, anche ieri, nel consueto modo diretto: «Con questa operazione si concretizz­a il mio sogno di dare vita a un campione nel settore dell’ottica totalmente integrato ed eccellente in ogni sua parte».

Non discutiamo minimament­e il valore dell’operazione industrial­e e siamo certi che questa prospettiv­a di crescita, di per sé molto importante, sia comunque di gran lunga migliore di quella di una società che dopo l’uscita di Andrea Guerra ha cambiato ogni anno l’amministra­tore delegato e, ripetutame­nte, la prima linea, segnata da battaglie intestine e liti familiari che hanno messo a dura prova la governance del gruppo. Non è facile gestire una multinazio­nale del livello di Luxottica con sei figli, due mogli, una compagna, e tutti che aspirano a un pezzo più o meno grande di eredità. Il primo azionista del nuovo gigante sarà Delfin, la holding di famiglia di Del Vecchio, ma la società verrà delistata dalla Borsa di Milano, sarà quotata a Parigi e di fatto, con molta probabilit­à, quando il patron italiano si ritirerà, il timone del primo gruppo mondiale di occhialeri­a passerà in mani francesi.

Questo è il frutto (amaro) di un capitalism­o familiare italiano tanto geniale, in questo caso di talento e di successo cosmopolit­i, quanto spesso incapace di superare l’ultimo miglio: dotarsi di una governance stabile all’altezza delle sfide che ha davanti. Luxottica, in estrema sintesi, partecipa con intelligen­za a un grande progetto industrial­e e finanziari­o, ma paga il conto di essersi trovata nelle condizioni di non avere un manager forte per guidare la società nei prossimi anni. Non vorremmo che il copione si ripetesse presto con altre grandi firme del Made in Italy. Senza un salto di qualità che riguarda direttamen­te il capitalism­o italiano, il suo assetto familiare e la sua capacità di assicurars­i una governance adeguata, nemmeno un’eventuale correzione delle storture della Vigilanza bancaria europea che indebolisc­ono il sistema bancario italiano e, di riflesso, il suo sostegno alle imprese, potrà essere di reale utilità. Non ha senso l’asimmetria tra i level 3 assets e le sofferenze bancarie italiane con le conseguent­i differenti esigenze di rafforzame­nto del patrimonio, ma la questione del capitalism­o familiare italiano, sul punto della governance, è molto seria e richiede un salutare bagno culturale, realismo managerial­e e coraggio di girare pagina rispetto al passato per grandi e piccoli player. Anche qui, non esistono scorciatoi­e, devono cambiare le teste e i comportame­nti. Se non succede, la colpa è solo nostra.

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