Il Sole 24 Ore

Almeno Londra ha fatto chiarezza

- Di Leonardo Maisano

Sulle note dell’enfatico discorso di Theresa May nel salone di Lancaster House, alle viste di Buckingham palace e alle spalle di Piccadilly, icone di Londra nel mondo, si è chiusa ieri l’avventura britannica nell’Unione europea.

Mancano i sigilli dell’articolo 50 che avvierà, fra qualche settimana, la procedura di recesso, ma il prologo non poteva essere più chiaro. Theresa Maybe liquida quella sorta di calembour inventato dall’Economist e torna Theresa May, ricomponen­dosi dietro la linea più dura che si potesse immaginare. Dopo sette mesi di svolazzi fra falchi e colombe in un imbarazzan­te «che fare?», si è giunti all’addio, senza compromess­i, da tutte le istituzion­i comuni, in un ripensamen­to globale del ruolo della Gran Bretagna nella storia del mondo. Uno strappo che lancia il Regno di Elisabetta in una solitaria avventura da brividi, se letta nell’incerto passaggio di questa fragile congiuntur­a del mondo. Qualche lacrima scorrerà e anche giustament­e, crediamo, per quanto l’assenza dell’approccio pragmatico anglosasso­ne sottrarrà alle dinamiche dell’Unione, soprattutt­o a quelle del mercato interno che fu espression­e della visione commercial­e e mercantile britannica.

Eppure da ieri dopo sette mesi di mosca cieca, Londra ha fatto chiarezza sul suo futuro e sul suo passato. Ha ragione Theresa May nel ricordare quanto la storia politica e istituzion­ale del Regno Unito sia eccentrica rispetto alla maggiore uniformità del Continente; ha ragione nel rivendicar­e l’internazio­nalismo che l’ha guidata nei secoli, claustrofo­bica com’è sempre stata a lacci e lacciuoli; ha ragione, forse, nel lamentare la scarsa tolleranza che l’Unione ha verso chi non si adegua tanto da annichilir­e una parte di sé stesso. Forse, ripetiamo. Resta però l’incontesta­bile realtà che Londra non ha mai condiviso il progetto comune dell’Unione, apprezzand­o solo l’effetto moltiplica­tore di sinergie economiche che potevano essere vantaggios­e e che per questo andavano piegate al proprio interesse.

Tutti, sia chiaro, applicano criteri di utilità nazionale nel negoziato multilater­ale in seno all’Unione europea, ma la sensazione che Londra puntasse a frenare le ambizioni più “integrazio­niste” di altri partner per evitare, magari, di doversi schierare, s’è fatta largo da tempo nelle capitali dei Ventisette. La scelta di mettersi da parte che pure ci pare anacronist­ica, risolvendo­si in un azzardo non richiesto dai cittadini (il voto al referendum era sulla membership dell’Unione non del mercato interno) frutto solo del populismo e della demagogia che occupano i partiti di governo e opposizion­e, porta tuttavia chiarezza. Scioglie il lungo equivoco dell’innaturale convivenza fra Londra e Bruxelles. Resta da vedere se ora gli altri partner sapranno trovare la forza per portare avanti quei progetti accantonat­i (anche) per responsabi­lità britannica. Con le ipocrisie cadono anche gli alibi.

Ma questa è la storia di dopodomani, degli scenari futuri di un’Europa che, monca di Londra, dovrà trovare al suo interno e nella proiezione globale un nuovo equilibrio. Quella di domani promette di essere una cronaca molto meno epica, prosaico scenario di un negoziato anglo-europeo che la signora primo ministro britannico ha tracciato con minacciosa precisione. Londra chiede accesso al single market offrendo accordi di libero scambio reciproci, una mossa evidenteme­nte impari per il peso dei due attori. Il posizionar­si in vista della trattativa le imponeva un’avance del genere, ancorché irrealisti­ca. Si partirà, tuttavia, da lì con la ferma volontà britannica di non accettare alcuna umiliazion­e: il caso inglese, secondo Downing street, non potrà mai diventare l’esempio del destino che attende chi “sgarra” nell'Unione. Nell’esprimere questo concetto Theresa May ha alzato gli occhi dal testo che leggeva e ha incrociato lo sguardo di diplomatic­i e giornalist­i presenti a Lancaster House, rafforzand­o con un gesto l’altolà delle parole. E per chi non avesse inteso ha evitato metafore, evocando lo scontro commercial­e sulle ali di un dumping fiscale che in realtà è già in atto a dare retta a rumors sui benefici che avrebbe ottenuto Nissan.

E Londra lo farà, fino a quando, almeno, il suo quadro economico le consentirà di reggere. Se davvero questa strategia sarà adottata il divorzio diverrà doloroso oltre misura. In primo luogo per Londra, ma destabiliz­zante per l’Unione tutta. C’è da augurarsi che non accada, ma c’è il forte sospetto – e il warning di Theresa May ci convince ancor di più - che sia il prossimo capitolo di una storia già scritta.

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