Almeno Londra ha fatto chiarezza
Sulle note dell’enfatico discorso di Theresa May nel salone di Lancaster House, alle viste di Buckingham palace e alle spalle di Piccadilly, icone di Londra nel mondo, si è chiusa ieri l’avventura britannica nell’Unione europea.
Mancano i sigilli dell’articolo 50 che avvierà, fra qualche settimana, la procedura di recesso, ma il prologo non poteva essere più chiaro. Theresa Maybe liquida quella sorta di calembour inventato dall’Economist e torna Theresa May, ricomponendosi dietro la linea più dura che si potesse immaginare. Dopo sette mesi di svolazzi fra falchi e colombe in un imbarazzante «che fare?», si è giunti all’addio, senza compromessi, da tutte le istituzioni comuni, in un ripensamento globale del ruolo della Gran Bretagna nella storia del mondo. Uno strappo che lancia il Regno di Elisabetta in una solitaria avventura da brividi, se letta nell’incerto passaggio di questa fragile congiuntura del mondo. Qualche lacrima scorrerà e anche giustamente, crediamo, per quanto l’assenza dell’approccio pragmatico anglosassone sottrarrà alle dinamiche dell’Unione, soprattutto a quelle del mercato interno che fu espressione della visione commerciale e mercantile britannica.
Eppure da ieri dopo sette mesi di mosca cieca, Londra ha fatto chiarezza sul suo futuro e sul suo passato. Ha ragione Theresa May nel ricordare quanto la storia politica e istituzionale del Regno Unito sia eccentrica rispetto alla maggiore uniformità del Continente; ha ragione nel rivendicare l’internazionalismo che l’ha guidata nei secoli, claustrofobica com’è sempre stata a lacci e lacciuoli; ha ragione, forse, nel lamentare la scarsa tolleranza che l’Unione ha verso chi non si adegua tanto da annichilire una parte di sé stesso. Forse, ripetiamo. Resta però l’incontestabile realtà che Londra non ha mai condiviso il progetto comune dell’Unione, apprezzando solo l’effetto moltiplicatore di sinergie economiche che potevano essere vantaggiose e che per questo andavano piegate al proprio interesse.
Tutti, sia chiaro, applicano criteri di utilità nazionale nel negoziato multilaterale in seno all’Unione europea, ma la sensazione che Londra puntasse a frenare le ambizioni più “integrazioniste” di altri partner per evitare, magari, di doversi schierare, s’è fatta largo da tempo nelle capitali dei Ventisette. La scelta di mettersi da parte che pure ci pare anacronistica, risolvendosi in un azzardo non richiesto dai cittadini (il voto al referendum era sulla membership dell’Unione non del mercato interno) frutto solo del populismo e della demagogia che occupano i partiti di governo e opposizione, porta tuttavia chiarezza. Scioglie il lungo equivoco dell’innaturale convivenza fra Londra e Bruxelles. Resta da vedere se ora gli altri partner sapranno trovare la forza per portare avanti quei progetti accantonati (anche) per responsabilità britannica. Con le ipocrisie cadono anche gli alibi.
Ma questa è la storia di dopodomani, degli scenari futuri di un’Europa che, monca di Londra, dovrà trovare al suo interno e nella proiezione globale un nuovo equilibrio. Quella di domani promette di essere una cronaca molto meno epica, prosaico scenario di un negoziato anglo-europeo che la signora primo ministro britannico ha tracciato con minacciosa precisione. Londra chiede accesso al single market offrendo accordi di libero scambio reciproci, una mossa evidentemente impari per il peso dei due attori. Il posizionarsi in vista della trattativa le imponeva un’avance del genere, ancorché irrealistica. Si partirà, tuttavia, da lì con la ferma volontà britannica di non accettare alcuna umiliazione: il caso inglese, secondo Downing street, non potrà mai diventare l’esempio del destino che attende chi “sgarra” nell'Unione. Nell’esprimere questo concetto Theresa May ha alzato gli occhi dal testo che leggeva e ha incrociato lo sguardo di diplomatici e giornalisti presenti a Lancaster House, rafforzando con un gesto l’altolà delle parole. E per chi non avesse inteso ha evitato metafore, evocando lo scontro commerciale sulle ali di un dumping fiscale che in realtà è già in atto a dare retta a rumors sui benefici che avrebbe ottenuto Nissan.
E Londra lo farà, fino a quando, almeno, il suo quadro economico le consentirà di reggere. Se davvero questa strategia sarà adottata il divorzio diverrà doloroso oltre misura. In primo luogo per Londra, ma destabilizzante per l’Unione tutta. C’è da augurarsi che non accada, ma c’è il forte sospetto – e il warning di Theresa May ci convince ancor di più - che sia il prossimo capitolo di una storia già scritta.