Gran Bretagna fuori dal mercato unico
La premier May sceglie la strada di un’uscita netta dall’Unione - Sterlina in rialzo, giù la Borsa
E Theresa May si svegliò falco. Il premier britannico ha interpretato in maniera massimamente estensiva il mandato del referendum del 23 giugno sulla permanenza nella Ue, conferendo a quel voto la missione di togliere Londra non solo dalla Ue, ma dal mercato interno europeo e, con qualche ambiguità residua, anche dall’unione doganale, almeno nella forma che conosciamo. La signora primo ministro ha rotto gli indugi e dal palco di Lancaster House ha annunciato al mondo che Londra non cercherà vie di mezzo. Sarà cesura netta con l’Ue, dunque, una chiarezza che ha fatto bene alla sterlina (per converso il Ftse ha perso l’1,2%) in netto apprezzamento sulla scia anche delle considerazioni sull’inflazione del governatore Mark Carney. «Il risultato del referendum – ha detto – non comporta la ritirata dal mondo. Siamo un Paese europeo ma anche un Paese che ha sempre guardato oltre l’Europa...». Ha rivendicato l’unicità culturale del regno, ha insistito sulla specificità e l’ambivalenza britannica nella sua problematica relazione con l’Ue, sottolineando però l’”internazionalismo” come elemento centrale del dna di Londra. Nessuno scivolone autarchico, dunque, e almeno a parole, nessuna suggestione protezionista alla Trump.
Gli obbiettivi che si è data sono una dozzina. Theresa May ha auspicato «un accordo di libero scambio basato sulla piena reciprocità con i partner Ue». Intesa per l’accesso al mercato Ue che «non potrà essere adesione al mercato interno». Perché ? «Per il semplice motivo che significherebbe non lasciare l’Unione europea » . La Global Britain che Theresa May ha detto di voler perseguire aspira a restare “europea” seppure fuori dalle sue istituzioni, sulla scorta di un accordo che, quando sarà raggiunto, dovrà avere il sì di Westminster. «Il governo – ha detto – sottoporrà l’intesa al voto di Comuni e Lords». Passaggio importante che interrompe un lungo equivoco sulle responsabilità istituzionali.
Se questo è il primo punto dell’agenda britannica, il secondo prevede il ritorno della sovranità britannica sulle corti europee mentre il terzo e il quarto passaggio scanditi dalla signora premier riguardano la condivisione del negoziato con tutte le nazioni del Regno, dagli scozzesi ai gallesi, mentre sarà garantita – non si sa come – la common travel area con la repubblica d’Irlanda. Passaggio ostico perché sarà un confine terre- stre con l’Unione europea. La road map di Theresa May prosegue poi con l’immigrazione. «La Gran Bretagna è e resta un Paese aperto e tollerante e noi vorremo sempre avere lavoratori stranieri soprattutto qualificati, ma il messaggio del referendum – ha ribadito – è stato chiaro: dobbiamo riprendere il controllo dei confini”. Londra insiste (vedi altro articolo) per un rapido accordo a favore dei britannici che risiedono già nell’Ue e per gli europei che vivono nel Regno Unito. «È prioritario per noi e per altri Paesi, anche se non sembra esserlo per uno o due...», ha aggiunto.
La signora premier ha poi insistito sulla piena disponibilità a collaborare con l’Ue nella lotta al terrorismo e nello sviluppo scientifico, ha tentennato invece sul libero commercio. Insistendo sul progetto di un “free trade agreement” con l’Ue ha, infatti, riba- dito la volontà di voler fare patti commerciali autonomi con altri Paesi. Materia complessa che sbatte con i principi dell’unione doganale dalla quale Londra immagina di uscire per poi ridefinire condizioni del tutto nuove.
Infine il patto transitorio chiesto a gran voce dalle imprese del Regno. Theresa May lo ha tenuto alla conclusione del suo discorso e ha mostrato di accogliere, anche in questo caso, le ansie dei brexiters. «Non è nell’interesse di nessuno una caduta nel vuoto (al termine del negoziato n.d.r.)...Ma non cercheremo una transizione indefinita per restare in una sorta di purgatorio...Dopo i due anni di trattativa, pertanto, sarà opportuno andare verso un’adozione progressiva delle nuove misure per consentire a tutti di adattarsi con la realtà emergente». Aggiustamenti progressivi, insomma, per un divorzio a velocità variabile.
E se non sarà così, se il catalogo delle pretese britanniche si sbriciolerà contro la fermezza dell’Ue? «Meglio nessun accordo che un cattivo accordo», ha detto Theresa May gettando sulla platea di diplomatici e giornalisti un inatteso, minaccioso messaggio. «So che alcuni Paesi invocano condizioni punitive per Londra, sarebbe un atto di autolesionismo...perché noi siamo liberi di promuovere tassazione e condizioni attraenti abbastanza per far arrivare investimenti e imprese». Il caso Nissan insegna: di fronte alla minacciata fuga del costruttore auto, Downing street ha promesso prebende sufficienti per convincerlo a investire nelle nuove produzioni anche in caso di uscita dal mercato interno. Lampi di guerra commerciale e dumping fiscale, dunque. Uno scenario che da ieri è d’improvviso emerso come possibile, se non addirittura probabile esito, della partita anglo-europea.
L’OBIETTIVO «Vogliamo essere una grande potenza commerciale globale negoziando accordi di libero scambio direttamente con i Paesi»