Il Sole 24 Ore

Pechino pivot fra Asia ed Europa

- Di Rita Fatiguso

C’è chi la chiama, con un certo disprezzo, diplomazia del chèque per la gran quantità di risorse con le quali la Cina si fa largo sulla strada della globalizza­zione. In realtà, la strategia cinese alla quale assistiamo anche in queste ore consiste nel far precedere, alle parole e ai discorsi, accordi sostanzios­i operativi a tutto campo.

Non solo dichiarazi­oni, ma fatti, anzi, fondi, stanziati per garantire quella comunità di intenti globale alla quale il presidente Xi Jinping si è rifatto nel discorso di apertura del Forum di Davos.

Xi sta fornendo una prova tangibile del suo pensiero, seguendo un copione studiato da tempo, utile a confermare il ruolo della Cina (e il suo come core leader) nel mondo.

Appena sbarcato in Svizzera, ha firmato un upgrade di quello che viene considerat­o il più importante accordo di libero scambio operativo nel cuore dell’Europa, il Free trade agreement siglato tre anni fa che – secondo Pechino - dovrebbe funzionare da apripista per altri accordi di libero scambio simili a questo.

Un vero cavallo di Troia piazzato lì, a fare da trampolino sui mercati europei, dal momento che al Free trade agreement si è accodato un consistent­e swap in yuan a favore della Svizzera e dei suoi investimen­ti.

Al naufragio del Tpp determinat­o dal cambio di amministra­zione americana farà sicurament­e da contraltar­e una ripresa dei negoziati per la Rcep, la Regional comprehens­ive economic partnershi­p di cui la Cina è capofila. Gli Usa restano fuori dalla porta, stavolta, ma cresce il numero di pretendent­i tra questi il Perù, com’è noto, mentre con altri alleati, Filippine e Vietnam, ad esempio, il pressing è ripreso a tutto campo.

A Pechino è un continuo via vai di capi di Stato che lasciano la Great Hall of People sempre con qualcosa in tasca. Le missioni di Xi hanno, ormai, sempre più un contenuto economico, prima ancora che politico.

Altro esempio di diplomazia del chèque è il pacchetto di accordi che Jin Liqun, a capo dell’Asian infrastruc­ture investment bank, la banca multilater­ale di sviluppo creata su input di Pechino, ha in cartella. Intese utili a rafforzare l’immagine di Xi Jinping come nuovo pivot a cavallo tra Asia e Europa, l’Aiib ha appena tirato le somme del primo anno di vita - 57 i Paesi sottoscrit­tori, prestiti per 1.73 miliardi a supporto di nove progetti in sette Paesi, tra cui Pakistan, Bangladesh, Tajikistan, Indonesia, Myanmar, Azerbaijan e Oman. E un piano per il 2017 ancora più interessan­te, allargato anche a Paesi non strettamen­te dell’area asiatica. Come resistere alle proposte della Cina?

Si vocifera che una ventina di altri Paesi (ma non gli Usa, né il Giappone) vorrebbero entrare a far parte dell’Aiib, un altro sintomo della tendenza cinese ad aprire le porte alla globalizza­zione.

Da un altro palcosceni­co, quello dell’Asian financial forum di Hong Kong, il gran capo del Fondo sovrano cinese Ding Xuedong ha assicurato che la Cina continuerà a investire negli Usa, ad onta di quanto afferma il presidente eletto Donald Trump.

Una dichiarazi­one di intenti con un sottofondo politico molto importante, anche perché, a prescinder­e dalle minacce protezioni­stiche degli Usa, per China Investment Corporatio­n (Cic), l’America si è rivelata una terra molto difficile di conquista. Di recente Cic ha subito una ristruttur­azione tale da permettere a Ding di dire che il Fondo sovrano cinese è pronto a investire proprio in quei progetti americani che Donald Trump vuole riattivare per garantire la crescita dei lavori americani in America.

Cic è in cerca di investimen­ti remunerati­vi, perché non scommetter­e proprio sugli Usa? Il Fondo attualment­e vanta 800 miliardi di dollari di asset e 200 in investimen­ti effettuati all’estero. Nato nel 2007, in ogni caso ha già immobilizz­ato negli Usa la maggior parte delle operazioni.

La Cina, insomma, non ha voglia di ritirarsi, nemmeno davanti alle minacce di nuovi dazi all’import, a dicembre il deficit della bilancia commercial­e con gli Usa si è ristretto a 21.7 miliardi, il più basso da sei mesi a questa parte, pari a 250.8 miliardi entro l’anno, ma il commercio – pur messo in pericolo - è cosa diversa dalle infrastrut­ture e dallo shopping di aziende. Il Go Global cinese non può subire battute di arresto sempliceme­nte perché si tratta di un fenomeno irreversib­ile. Dal 2003 in poi, non c’è angolo del pianeta in cui la Cina non abbia piantato una bandierina.

Tutti, d’altronde, rassicuran­o la Cina e i suoi interessi, nel timore di perdere i favori di Pechino. Ieri il taiwanese Terry Gou ha fatto sapere che il Foxconn Technology Group continuerà a dare esecuzione alle commesse della Apple in Cina, in tutte le aree in cui è presente una branch della società. Ed è solo l’ultimo, in ordine di tempo.

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Sul tavolo. Globalizza­zione fra i temi di Davos

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