Rio Tinto tiene a freno l’export
Gli sconcertanti rialzi di prezzo del minerale di ferro - salito in questi giorni al record da due anni, oltre 80 $ per tonnellata – non hanno smosso Rio Tinto dalla strategia di contenere l’espansione delle forniture. La mineraria ha comunicato ieri di aver esportato 327,6 milioni di tonnellate della materia prima nel 2016. Su base annua l’incremento (+3%) è stato il più moderato dal 2011. Per il 2017 l’obiettivo è 330-340 milioni di tonnellate, ossia un aumento inferiore all’1%, il minore dal 2008.
corsa all’oro nero di Permian si è unita anche
La major ha speso 6,6 miliardi di dollari per raddoppiare la sua presenza nel bacino di shale oil dei miracoli, un’area desertica tra il Texas e il New Mexico dove i frackers riescono a estrarre greggio a costi inferiori a 40 dollari al barile e che da mesi è diventata il cuore pulsante dell’industria petrolifera americana.
Con l’operazione annunciata ieri – in cui rileva una serie di asset dalla famiglia Bass, erede del leggendario petroliere texano Sid Richardson – Exxon vanta ora 6 miliardi di barili di riserve stimate nel Permian, un tesoro che la riporta in primo piano tra i protagonisti nell’area, accanto a Chevron e Occidental Petroleum.
L’acquisizione è solo l’ultima di una lunga serie nella shale play, che – grazie alla particolare conformazione geologica, con diversi strati sovrapposti di rocce impregnate di petrolio – si è imposta come la più allettante negli anni della crisi. L’anno scorso, secondo Wood Mackenzie, un quarto delle operazioni di M&A nell’industria petrolifera mondiale ha riguardato il Permian. Solo negli ultimi giorni si sono fatte avanti anche Noble Energy – che lunedì ha comprato per 2,7 miliardi di dollari