Le troppe “minacce” della signora May
Singapore con gli steroidi? Una tassazione rasoterra, deregulation totale, social dumping per mantenere business e attività che altrimenti minacciano la fuga.
Londra pensa di mimare esotici paradisi fiscali per espressa sollecitazione del premier Theresa May e del di lei Cancelliere, Philip Hammond, impegnati a sfilar sé stessi dalla spiacevole posizione di giocatori senza atout, proni, come temono di apparire, alle intemperanze del mazziere europeo.
Non avere un accordo con l’Unione europea, per Downing street, è meglio di avere un pessimo accordo, andarsene sbattendo la porta è preferibile di piegare la testa. Orgoglio nazionale? Più volgarmente esigenze di partito, quelle esigenze di consenso interno, per restare al potere, che hanno illuminato la strada di David Cameron e ora quella di Theresa May, conducendo la nazione nel tunnel in cui si ritrova. Minacciare guerre commerciali e fiscali all’Ue significa titillare lo spirito guerriero di una nazione sempre pronta al confronto, financo alla lite, significa, soprattutto, annunciare al Paese che Londra ha sempre un asso nella manica e che detterà lei le condizioni della trattativa. Questa volta, francamente, non vediamo – nella congiuntura che ci circonda – la geometrica potenza di un Regno che ha scelto l’'isolamento. Certo la Gran Bretagna potrà abbattere la corporate tax al 15% e magari pareggiare il 12,5% dell’Irlanda, potrà garantire benefici all’automotive che sorregge pezzi importanti dell’occupazione nel nord del Paese o all’industria finanziaria che si ascrive il 12% del Pil, potrà inventarsi diavolerie per sovvenzionare Scozia e Irlanda del nord sotto schiaffo assai più di Inghilterra e Galles dal mondo nuovo disegnato a Lancaster House. Potrà fare tutto questo e anche qualcosa in più, ma per quanto tempo potrà farlo? Il debito pubblico del Regno veleggia verso il 90%, quisquilie direbbe Totò, se misurato con quello italiano, ma è tornato a crescere il debito delle famiglie dopo la stretta innescata dalla crisi del 2008. Oggi è all’83% del prodotto interno lordo, inclusi mutui e carte di credito, e avanza secondo la Banca d’Inghilterra del 3,5% all’anno. Molto meno del 10% dell’era pre credit crunch, ma molto di più del 2015. I tassi a zero invogliano a spendere con generosi “pagherò”, ma lo scenario è destinato a mutare presto se l’inflazione, come ha avvertito il governatore Mark Carney, è prossima al target e molto oltre.
Londra, sia chiaro, resta l’economia più florida fra quelle del cosiddetto Occidente secondo il Fondo monetario, ma lo strappo dall’Ue è una svolta sistemica che implica l’adozione di un nuovo modello di sviluppo di cui tutti parlano, ma che nessuno sa disegnare con sufficiente precisione. E così tende a prevalere questa idea di Londra come Singapore con gli steroidi. Un po’ di doping per sopravvivere, sperando che, magari, Donald Trump allunghi la mano. E, forse, il presidente eletto americano lo farà, sospingendo il Regno di Elisabetta alla deriva dal modello di sviluppo culturale europeo a cui Theresa May dice, nonostante tutto, di volersi ancora ispirare.