Il Sole 24 Ore

Le ultime ore di Barack alla Casa Bianca

- Di Mario Platero

Il suo carattere «non è cambiato», non gli dispiace lasciare «perché vivere in una bolla logora», ma per Barack Obama, 44° Presidente degli Stati Uniti, alla Casa Bianca resteranno un pezzetto di cuore e ricordi infiniti: è qui, «dalle finestre dell’Ufficio Ovale che ho visto visto le mie due figlie, Malia e Sasha crescere...è qui che ho stabilito legami umani oltre che profession­ali indimentic­abili». È qui che il Presidente americano ha avuto in sua moglie Michelle un costante appoggio nei momenti di grande solitudine. E qui, in questo relativame­nte piccolo ufficio nella West Wing della Casa Bianca, l’Ufficio Ovale, dove lo abbiamo visto in molte visite di stato, che Obama ha preso decisioni che hanno cambiato il corso della storia. Ed è qui, o negli appartamen­ti privati Barack Obama si è dedicato ai libri, alle letture «fon- damentali perché potevo staccare la spina e allo stesso tempo mettere le cose in prospettiv­a», come ha detto al New York Times. È qui infine che il suo idealismo si è scontrato con il realismo della politico: voleva unire Washington e non ci è riuscito. Ha cercato più volta la pace per zone devastate dalla guerra e non l’ha ottenuta.

Alla Casa Bianca che lascia c’è anche la State Dining Room, stanza meraviglio­sa che nei parties natalizi trabocca di dolci, vov al Rum e una splendida Casa Bianca di zenzero. Le grandi cene di stato, come quelle in onore di Renzi avvengono ormai sotto un grande tendone, ma è qui che Obama ha rilasciato la sua ultima intervista televisiva a Steve Kroft, storico corrispond­ente della Cbs. Era anche stato il primo a intervista­re Obama da presidente. E dunque anche la Cbs e Kroft hanno scritto una pagina di giornalism­o. Steve, 71 anni, un uomo gioviale, simpatico, ma in apparenza deciso davanti ai presidenti, ha intervista­to Obama 12 volte per il leggendari­o programma di inchiesta, 60 Minutes. Ieri, l’ultima conferenza stampa formale e poi basta: oggi si parlerà solo di inaugurazi­one e venerdì Donald J Trump diventerà Presidente.

Siamo arrivati insomma alla classica passeggiat­a “Down Memory Lane”, sul viale dei ricordi. E questo riguarda anche noi giornalist­i che abbiamo viaggiato in questi otto anni al seguito di Barack Obama, dal primo viaggio in Cina, al primo G20 fino allo storico viaggio a Cuba di quest’anno. Ed è ve- ro, è anche tempo di bilanci, ma oggi più che la prospettiv­a storica prevale l’addio nostalgico a un’epoca che si chiude. Kroft ad esempio ha ripescato vecchie immagini di quando Obama era ancora senatore per l’Illinois, lanciava la sua improbabil­e corsa per la Casa Bianca e passeggiav­ano insieme per strada come due sconosciut­i. Nessuno prestava attenzione a Barack, balzato all’onore delle cronache con il suo discorso alla convention democratic­a di Boston del 2004. Nessuno poteva pensare allora, dopo la sconfitta di John Kerry, che sarebbe diventato presidente da lì a quattro anni. E se ancora nel 2009 e nel 2011 i capelli erano nerissimi, adesso i capelli di Obama sono quasi completame­nte bianchi: «Mi sento più vecchio? Fisicament­e no, sento di avere molta energia e sto bene, ma il tempo che passa lo senti eccome, se lo dimentichi ci sono i figli che crescono a ricordatel­o». Poi una riflession­e: «Sono contento di uscire relativame­nte giovane dalla Casa Bianca e dalla presidenza, a 55 anni, questo vuol dire che avrò tempo per un secondo, e forse per un terzo atto. Di sicuro, sono pronto a uscire dalla bolla».

Obama esce dalla “bolla” dove domani farà il suo ingresso Donald Trump. Siamo alla settimana chiave per la grande liturgia della democrazia americana, il passaggio dei poteri da un’amministra­zione e da un partito uscente a un altro Presidente e, in questo caso, a un altro partito. Si dice che la democrazia americana sia logora, che la polarizzaz­ione stia indebolend­o il paese. Lo stesso Barack Obama ammette che nella nuova dimensione della lotta politica c’è qualcosa che rischia di essere autodistru­ttivo. Ma la solidità delle istituzion­i resta e la storica staffetta che vedremo venerdì in mondovisio­ne fra due Presidenti che non potrebbero essere più di- versi sotto ogni punto di vista avverrà con puntualità e precisione che sono rimasti costanti in 220 anni di storia. È lo stesso Obama a spiegare perché: «Il sistema è stabile perché abbiamo le autonomie degli stati, delle città, delle contee, abbiamo un settore privato forte e vibrante e una divisione dei poteri che nella visione dei nostri padri fondatori si è rivelata preziosa. Per questo il paese funziona, anche se Washington non funziona. C’è un rischio però, occorre porre rimedio alle forti divisioni, perché altrimenti nel tempo le cose non funzionera­nno».

Spera che il successore, Donald Trump, non ricorra troppo a Twitter: «Ci sono delle tradizioni anche istituzion­ali che hanno una loro ragione di esistere, meglio riflettere e seguire il copione che buttarsi in avanti». Il Presidente ne sa qualcosa. Il celebre ammoniment­o a Bashar Assad - «usare armi chimiche sarà come varcare una linea rossa nella sabbia» - Obama lo pronunciò fuori copione. Ma è su un avvertimen­to che un Presidente americano si gioca la sua credibilit­à. Obama rivendica che la minaccia funzionò, «alla fine Assad ha rinunciato a quasi tutte le sue armi chimiche, un risultato importante». Forse, ma quello fu uno dei molti errori in politica estera: Obama non diede mai seguito alla sua minaccia dopo gli attacchi di Assad sulla popolazion­e civile, mostrò debolezza e aprì la porta mediorient­ale alla Russia. Di questo si occuperann­o gli storici. Noi ci auguriamo che il nuovo presidente non minacci attacchi con un Tweet, perché, nel suo caso, potrebbe anche dare seguito alle minacce senza riflettere troppo sulle conseguenz­e. Ma ieri è stato l’ultimo giorno ufficiale di Obama, pensiamo a quel che lascia sul piano morale: una presidenza integerrim­a, senza scandali e, forse a suo detrimento, senza cadute di stile. Per questo il suo indice di gradimento è al 57% uno dei più alti per un Presidente uscente. Quando si occupava della transizion­e era all’84%. La transizion­e di Trump è al 40%. Auguriamoc­i che possa solo far meglio.

ASPETTATIV­E DELUSE Una presidenza integerrim­a sul piano morale, senza scandali, ma costellata da troppi tentenname­nti in politica estera

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