«I problemi dell’Europa da Bruxelles e Francoforte»
Il ministro Padoan a Davos: «Classe media disillusa. Perciò dice sempre no»
Donald Trump e i partiti pro-Brexit sono riusciti a portare in massa alle urne i loro sostenitori, mentre la voce dell’Europa arriva spenta alle orecchie degli elettori, tutt’al più sotto forma di dibattito ragionieristico sulle virgole del deficit che valgono miliardi, ma non sono esattamente la chiave per aprire teste e cuori dei cittadini.
«Il problemi dell’Europa nascono a Bruxelles e qualche volta a Francoforte», ma più in generale «il problema dell’Europa è l’Europa», sostiene senza giri di parole il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan nel corso dei lavori del Forum di Davos. L’accusa mossa all’Unione è di non avere «una visione» in grado di generare «carica vitale» e di produrre «azione» anche nel settore privato. La «potenza dei messaggi» lanciati da Brexit o dalla nuova presidenza americana è «incomparabile», e questo spiega le diverse fortune che il fronte eterogeneo raccolto nel dibattito sotto l’etichetta di “populismo” incontra fra i cittadini: nelle urne e non solo. Ma «se l’atteggiamento populista si afferma - lancia l’allarme Padoan - non possiamo più governare una società democratica».
La trasferta di Davos offre al ministro dell’Economia l’occasione per rialzare la testa dall’agenda quotidiana e ragionare sulle cause profonde della crisi politica europea, intrecciata all’affanno di un riformismo fiaccato dalla disillusione della classe media che «si esprime dicendo “no” a qualsiasi proposta politica». Le urgenze immediate e i tira e molla sugli zerovirgola inseguono però Padoan anche sulle montagne svizzere: da Roma arriva la notizia che il Senato ha approvato quasi all’unanimità la richiesta avanzata dal Movimento 5 Stelle di un intervento del ministro per informare il Parlamento sulla richiesta di aggiustamento dei conti italiani arrivata martedì da Bruxelles, e il tema tornerà oggi al centro di un incontro fra l’inquilino di Via XX Settembre e il commissario Ue agli affari economici Pierre Moscovici.
Le discussioni con Padoan, ha spiegato Moscovici, sono «sempre costruttive e franche», ma più del rapporto fra i due titolari dei conti italiani ed europei c’è in gioco la necessità per i Paesi come il nostro di «ridurre il proprio deficit, perché è positivo per le loro economie e perché non possono andare avanti con troppo debito. Mi spiace per l’Italia - ha chiosato il politico francese - ma ne sono convinto». Tanta fermezza, ha riconosciuto lo stesso commissario europeo, non è dimostrata dall’Europa quando si tratta di rimettere nelle carreggiate dei regolamenti i surplus commerciali di altri membri dell’Unione, Germania in primis, e alla base di questo disallineamento ci sono ragioni tecniche che hanno però un’origine politica. «Una cosa sono le procedure per deficit, che hanno sanzioni efficaci, e un’altra le procedure per gli squilibri macroeconomici, meno efficaci», riassume Moscovici, spiegando che l’Europa funzionerà così fino a quando i Paesi non decideranno di «condividere gli sforzi».
Ma in questa direzione non sembra soffiare l’aria europea, chiusa in un circolo vizioso fra spinte nazionaliste e riforme che incrociano l’opposizione dei cittadini prima di produrre risultati percepibili, con la conseguenza di fornire argomenti ulteriori agli emuli più o meno fedeli di chi ha voluto portare il Regno Unito fuori dalla Ue. Per spezzare questo circolo Pa- doan porta sui tavoli della discussione di Davos «quattro pilastri per la crescita inclusiva», rappresentati da lavoro, istruzione, tecnologia e redistribuzione della ricchezza.
Programma vasto, evidentemente, da articolare in un orizzonte di vent’anni che secondo Padoan «sembrano tanti, ma non lo sono». Se l’obiettivo è quello di restituire all’Unione europea una visione in grado di muovere gli interessi delle persone e non solo i tasti delle calcolatrici, del resto, la prima mossa è quella di uscire dalle strette di una discussione che alle dinamiche del giorno per giorno sacrifica le prospettive di lungo termine, regalando questo terreno all’esclusiva dei “populismi”. E se la classe media è «spremuta e arrabbiata», come recita il titolo dell’incontro in cui Padoan ha sviluppato la sua riflessione, la creazione di «posti di lavoro decenti», per dirla con il ministro, è «il modo più potente per includere le persone nella società».
Il lavoro è il primo dei quattro «pilastri» indicati da Padoan, perché la creazione di nuove fonti di reddito è l’unico strumento per dare un po’ di sangue anche a un dibattito su una crescita che altrimenti rimane chiusa nelle stanze degli economisti senza farsi sentire nella vita delle persone. Per innalzare questo pilastro, però, servono gli altri tre, da un’istruzione che va costruita cercando di capire quali lavori serviranno fra 10-20 anni alla tecnologia e all’innovazione. In più di un’occasione l’economista Padoan ha respinto la visione, coltivata anche dal dibattito accademico, di una tecnologia distruttrice di lavoro.
Nelle parole di Padoan l’innovazione ha lo stesso mix di pregi e difetti presentato da molte «riforme strutturali», che creano malcontento nelle fasi iniziali e risultati positivi nel medio-periodo: come nelle rivoluzioni industriali, in quest’ottica i posti di lavoro cancellati dall’innovazione sono sostituiti da nuovi filoni produttivi in altri settori, e nel lungo termine il saldo è positivo.
Il lungo termine, però, non è l’orizzonte preferito dalla politica, alle prese con la successione di appuntamenti elettorali in cui chi vota è propenso a esprimere l’insoddisfazione per il presente più che la speranza nel futuro. Anche per questo la politica si deve occupare di «redistribuzione della ricchezza», che il mercato da solo non è in grado di assicurare. L’alternativa è lasciare sul terreno la crescente e preoccupata sensazione di esclusione che dà argomenti alle forze politiche collocate a vario titolo nell’ampio ventaglio anti-sistema: forze che secondo Padoan «sollevano anche problemi giusti, ma non danno le risposte».