Ritenute, limiti «rigidi» per fissare l’imposta evasa
Troppo vino non determina il reddito del ristorante
pNel caso di un professionista, il calcolo dell’imposta evasa ai fini penali non deve considerare la ritenuta d’acconto qualora non sia stata versata dal sostituto. A fornire questa interessante precisazione è la Corte di cassazione, con la sentenza n. 2256 depositata ieri.
La Guardia di finanza denunciava un commercialista per infedele dichiarazione in quanto aveva omesso di contabilizzare una fattura nei confronti di una società cliente e l’imposta evasa superava la soglia di punibilità (articolo 4, decreto legislativo 74/2000). La Procura richiedeva e otteneva dal Gip il sequestro preventivo sui beni dell’indagato.
Avverso l'ordinanza del Tribunale del riesame, che confermava la legittimità della misura cautelare, il professionista ricorreva per Cassazione lamentando, in sintesi, che non era stata superata la soglia di punibilità prevista per il reato di dichiarazione infedele: non erano state scomputate dall’importo ritenuto evaso le ritenute d’acconto indicate in fattura, anche se mai versate dalla società al fisco in qualità di sostituto.
Secondo la difesa del commercialista, infatti, il concetto di imposta evasa deve necessariamente tenere conto delle entità monetarie, in quanto il patrimonio del soggetto agente subisce un decremento nel momento in cui la ritenuta stessa è operata, a nulla rilevando che il sostituto non l’abbia poi materialmente versata.
La Corte di cassazione ha respinto il ricorso. Va ricordato che, in base all’articolo 1, lettera f) del decreto 74/2000, per imposta evasa si intende la differenza tra l’imposta effettivamente dovuta e quella indicata nella dichiarazione, ovvero l’intera imposta dovuta nel caso di omessa dichiarazione, al netto delle somme versate dal contribuente o da terzi a titolo di acconto, di ritenuta o comunque in pagamento di detta imposta prima della presentazione della dichiarazione o della scadenza del relativo termine.
Secondo i giudici di legittimità, la somma corrispondente alla ritenuta d’acconto può essere detratta, da parte del sostituito, dall’ammontare complessivo dell’imposta dovuta solo se sia stata effettivamente corrisposta (direttamente o dal sostituto d’imposta) entro il termine per la presentazione della dichiarazione dei redditi.
E infatti, chiarisce la sentenza, la predetta definizione di imposta evasa ai fini penali fa riferimento alle «somme versate dal contribuente o da terzi a titolo di ritenuta».
La norma penale intende evitare che gli obblighi dichiarativi siano elusi sulla base di collusioni tra sostituto e sostituito in danno dell’erario. Nel caso di specie, la ritenuta d’acconto non era stata versata né dal professionista, né dalla società e la circostanza era ben nota al commercialista in quanto la società era sua cliente.
I giudici chiariscono anche che il sostituito non è sottratto agli obblighi dichiarativi a suo carico se il sostituto non vi adempie.
La ritenuta, quindi, non poteva essere scomputata dall’imposta evasa dal contribuente, con conseguente superamento della soglia di punibilità prevista dalla fattispecie di dichiarazione infedele.
La sentenza sicuramente interpreta letteralmente la definizione di “imposta evasa” ai fini penali.
Tuttavia va ricordato che anche l’agenzia delle Entrate ormai ammette lo scomputo della ritenuta in assenza di versamento da parte del sostituto ove si dimostri di non averla percepita. pUn consumo di vino ritenuto eccessivo e sproporzionato rispetto al numero dei coperti non basta ad accertare un maggior reddito nei confronti del ristoratore se il giudice motiva in modo congruo la propria decisione. Ciò perché l’apprezzamento dei requisiti di gravità, precisione e concordanza degli indizi posti a base dell'accertamento attiene alla valutazione dei mezzi di prova rimessa in via esclusiva al giudice di merito, salvo eventuali censure sulla congruità delle relative motivazioni. A precisarlo è la Corte di cassazione con la sentenza 1103 depositata ieri.
Ad un ristoratore erano accertati maggiori ricavi con riferimento ai numeri di coperti praticati in un anno sulla base del consumo di vino pari a 33 cl pro capite. La Ctp e la Ctr ritenevano infondata la pretesa. In sintesi, la quantità di consumo di vino per pasto appariva un dato aleatorio in quanto variabile in relazione ai gusti ed alle abitudini di ciascun cliente.
Il ricorso per Cassazione, in cui l'ufficio lamentava sostanzialmente che si poteva ben presumere da un fatto noto, quale il consumo di vino, il fatto ignoto (la omessa fatturazione), è stato respinto dai giudici di legittimità. Per la Corte non è in discussione la validità teorica dell'utilizzo del criterio; ma se l'esito di tale metodo confligge con le possibilità teoriche di consumo di vino, viene meno l'attendibilità nel suo complesso. Ciò attiene alla prova a carico dell'Ufficio in quanto solo a seguito della valutazione di sufficienza, l'onere contrario si trasferisce sul contribuente.
IL PUNTO Non deve essere considerata la ritenuta d’acconto indicata in fattura ma non versata da parte del sostituto