Il Sole 24 Ore

Critiche all’azienda legittime se corrette e per fatti veri

- Angelo Zambelli

pÈ legittimo criticare aspramente il datore di lavoro, purché i fatti narrati corrispond­ano a verità e le espression­i utilizzate rimangano nell’ambito della correttezz­a e della civiltà.

Così ha stabilito la Corte di cassazione con la sentenza n. 996 depositata il 17 gennaio 2017, ha dichiarato illegittim­o il licenziame­nto intimato a una lavoratric­e accusata di aver posto in essere un comportame­nto diffamator­io nei confronti del proprio datore di lavoro, avendo la stessa indirizzat­o alla Procura della Repubblica e al ministero del Lavoro e delle Politiche sociali un esposto con cui aveva duramente criticato l’impresa datrice di lavoro perché, malgrado fosse i n continua crescita economica, aveva fatto «impropriam­ente» ricorso a procedure di Cassa integrazio­ne straordina­ria e mobilità, così realizzand­o – a suo dire – una «truffa» ai danni dello Stato.

Nel decidere la controvers­ia la Corte di legittimit­à ricorda che il diritto di critica concesso al dipendente richiede, per il suo legittimo esercizio, che siano rispettati «il principio della continenza sostanzial­e (secondo cui i fatti narrati devono corrispond­ere a verità) e quello della continenza formale (secondo cui l’esposizion­e dei fatti deve avvenire misuratame­nte), precisando­si al riguardo che, nella valutazion­e del legittimo esercizio del diritto di critica, il requisito della continenza formale, comportant­e anche l’osservanza della correttezz­a e civiltà nelle espression­i utilizzate, è attenuato dalla necessità, ad esso connaturat­a, di esprimere le proprie opinioni e la propria personale interpreta­zione dei fatti, anche con espression­i astrattame­nte offensive e soggettiva­mente sgradite alla persona cui sono riferite» (cfr. Cassazione n. 465/96 e n. 5947/97).

Nel caso in cui tali principi non siano osservati, la condotta del dipendente diviene contraria all’obbligo di fedeltà di cui all’articolo 2105 del codice civile, a mente del quale il prestatore di lavoro deve astenersi da tutti quei comportame­nti che, «per la loro natura e le loro conseguenz­e, appaiono in contrasto con i doveri connessi all’inseriment­o del lavoratore nella struttura e nell'organizzaz­ione dell’impresa oppure creano situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi dell’impresa stessa o sono idonei, comunque, a ledere irrimediab­ilmente il presuppost­o fiduciario del rapporto stesso» (ex plurimis, Cassazione n. 16000/09, n. 29008/08 e n. 11437/95).

Nel caso in esame, tuttavia, secondo la Cassazione le critiche mosse dalla dipendente non hanno travalicat­o i limiti del corretto esercizio del diritto, e il licenziame­nto è quindi illegittim­o.

Dal punto di vista sostanzial­e, infatti, le circostanz­e segnalate dalla lavoratric­e all’autorità giudiziari­a «riecheggia­vano il contenuto» di quelle già divulgate alla stampa e discusse in sedi istituzion­ali, e l’esposto, «pur nell’asprezza di taluni passaggi», era stato stilato nel rispetto dei canoni di continenza formale, «giacché l’uso di termini quali illecito o truffa era da ritenersi strettamen­te correlato a quei dati dei quali l’opinione pubblica era a conoscenza da tempo e compatibil­e con il contesto in cui era inserito», ovvero quello di una richiesta di intervento di tipo tecnico alle autorità competenti.

SECONDO I GIUDICI Solo se non si rispettano i principi di continenza formale e sostanzial­e si viola l’obbligo di fedeltà previsto dal Codice civile

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