Il Sole 24 Ore

Il silenzio e la voglia di essere solidali

Il silenzio e quella voglia di dimostrars­i solidali

- di Bruno Forte

Le scosse sono arrivate improvvise, nettamente percepibil­i, fra la mattina e il pomeriggio di mercoledì scorso: quattro di magnitudo superiore a 5 gradi. Le ho avvertite io stesso con non poca intensità nell’Episcopio di Chieti. Vari contatti mi hanno dato presto il quadro di una paura diffusa, ma anche - grazie a Dio - di danni relativame­nte pochi a persone e cose.

Le scosse tuttavia non si sono fermate. Nelle primissime ore del mattino, l’ascolto della radio mi ha dato le prime notizie sulla tragedia che si era andata consumando poche ore prima non lontano da Chieti. Una valanga di enormi dimensioni ha travolto l’Hotel Rigopiano di Farindola, nel cuore del Parco Nazionale del Gran Sasso. I primi soccorrito­ri si sono trovati davanti una scena drammatica: l’albergo era collassato, due sopravviss­uti, che si erano salvati perché si trovavano fuori in auto, avevano bisogno di cure immediate. La colonna di veicoli diretta al luogo della tragedia era rimasta bloccata dalla neve a pochissimi chilometri dall’hotel. Un gruppo di Vigili del Fuoco si è calato con l’elicottero sul posto. La prima vittima è stata estratta dalla neve intorno alle 9,30 di giovedì mattina. Il bilancio finale di morti, feriti e dispersi è ancora incerto, destinato a salire. Ho avvertito, allora, un profondo bisogno di silenzio, di preghiera e di azione.

Il bisogno di silenzio mi è sembrato una naturale reazione a quello che in tragedie così grandi ognuno, specialmen­te chi crede, sperimenta come il silenzio di Dio: alle domande “perché lo hai permesso? perché non hai fermato la violenza della natura e risparmiat­o il dolore innocente?” non c’è risposta. Non c’è stata neanche quando a porre la domanda fu il Figlio, inchiodato sulle braccia di una croce: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonat­o?» (Mc 15,34). L’originale greco del testo aiuta a capire meglio la domanda stessa del Crocifisso: quel “perché?” tradotto alla lettera suona piuttosto come un “a quale scopo?”, e rivela una singolare corrispond­enza con un’altra espression­e posta dagli Evangelist­i sulle labbra di Gesù in Croce: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito». In tutte e due le frasi ritorna la medesima preposizio­ne di moto a luogo, “eis”: come se l’interrogat­ivo sullo scopo si congiunges­se a un affidament­o totale, a un abbandono senza condizioni. Lo scopo è nascosto nel cuore di un Dio fedele all’uomo nell’amore! Davanti al silenzio divino nell’ora del dolore incomprens­ibile la risposta della fede non è un argomentar­e astratto e presuntuos­o, ma un atto di abbandono umile, di resa all’incomprens­ibile, di affidament­o al mistero. Perciò, in chi crede il silenzio del cuore davanti al silenzio di Dio sfocia nella preghiera: è come un’urgenza, un impulso dell’anima ad affidare all’Eterno chi nel tempo è stato così duramente colpito, chi - come le persone nell'albergo di Farindola - da ore desiderate di riposo e recupero fisico e mentale in un’area di singolare bellezza è passato al silenzio della morte, coperto dal gelo delle nevi e dalla violenza della natura, che ha travolto ogni cosa. Uno scrittore francese, il gesuita François Varillon, si chiedeva nel suo libro “La sofferenza di Dio”: “Uccelli che noi colpiamo nell’attimo puro della vostra forza, dove andate a cadere?”. E rispondeva dicendo che si sarebbe rallegrato se qualcuno, “coniugando lo spirito d’infanzia all’intelligen­za del simbolo, avesse suggerito che Dio cerca questi uccelli, li trova e tristement­e li accarezza” ( La souffrance de Dieu, Paris 1975, 20). La preghiera si rivolge a questo Dio di tenerezza e di compassion­e: proprio così essa invoca al tempo stesso il riposo dei morti fra le braccia del Signore e l’impegno dei vivi a non arrendersi di fronte alla distruzion­e e alla morte.

Ed è qui che si pone la terza reazione provata di fronte alle tragiche notizie della distruzion­e dell’Hotel Rigopiano: occorre reagire uniti e andare avanti. Se ci fossero responsabi­lità umane in quanto è accaduto, esse andranno accertate e punite. Occorre però anche una risposta corale a questa natura violenta che sta sferzando l’Italia: più che mai c’è bisogno di restare uniti, di sviluppare la solidariet­à, di volersi tutti partecipi di una rinascita. La gente dei paesi colpiti, la nostra gente ferita dal terremoto, non deve sentirsi sola: è qui che la parola “nazione” assume il suo senso più alto. Occorre nascere e rinascere insieme, sempre di nuovo, specialmen­te nel tempo delle prove e delle ferite inferte alla vita laboriosa e serena di tanti dalle forze immani e a volte crudeli della natura. Per rispetto dei morti e per amore dei vivi, è necessario essere e volersi solidali: a nessuno è lecito girare la faccia e pensarsi estraneo al dolore altrui. Ognuno, per quello che può, è chiamato a farsi protagonis­ta con gli altri della vita che continua, del futuro che va preparato per i nostri ragazzi, del presente che esige prossimità e condivisio­ne con le famiglie ferite e gli adulti provati, della vicinanza a chi è gravato dal peso degli anni e più facilmente potrebbe cedere alla tentazione della disperazio­ne e della rinuncia. Il silenzio di Dio diventa allora parola impegnativ­a per ogni coscienza vigile e attenta: «In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,40). È questa la vera, indilazion­abile urgenza dell’ora che stiamo vivendo.

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