Francia, industria in deficit di competitività
Il capo economista di Natixis Patrick Artus, che ama le battute a effetto, riassume così la situazione dell’industria francese: «Qualità spagnola a prezzi tedeschi». E la sua ultima nota sul tema ha un titolo che non lascia spazio alla speranza: «Francia, l’impossibile reindustrializzazione».
In sostanza, secondo Artus, per ridare competitività all’industria francese sul fronte dei costi bisognerebbe ridurre il costo del lavoro del 10% (diminuendo le retribuzioni e/o tagliando drasticamente gli oneri sociali a carico delle imprese, i più alti al mondo). Ed è impossibile che questo avvenga, in un Paese dove il dialogo sociale non è certo all’altezza delle sfide che è chiamato ad affrontare. Dal punto di vista della competitività “extra-costi”, l’economista osserva sfiduciato i ritardi dell’industria francese in tema di innovazione e modernizzazione, sintetizzandoli nei dati sull’automazione di processo: nel 2015 sono stati acquistati 1,20 robot ogni mille dipendenti, rispetto a 1,32 in Spagna, 1,69 in Italia e 2,80 in Germania; sempre nel 2015, lo stock di robot era di 1,22 ogni cento dipendenti in Francia, rispetto a 1,40 in Spagna, 1,56 in Italia e 2,45 in Germania.
Denis Ferrand, capo economista di Coe-Rexecode (l’ufficio studi più vicino al mondo dell’imprenditoria francese), ha un giudizio meno drastico («Non c’è una maledizione dell’industria francese, che tutto sommato andava bene fino alla fine degli anni 90. E non c’è nulla di ineluttabile, come dimostra quello che è successo negli ultimi quindici anni in Germania»), ma riconosce che la situazione è molto difficile e che non sono numerose le ragioni di sperare nel prossimo futuro, seppure vi sia qualche timido segnale positivo.
Per capire quanto è accaduto all’industria francese, bisogna appunto risalire all’inizio degli anni Duemila. Perché i guai veri, strutturali, cominciano con la legge sulle 35 ore, con la riduzione dell’orario di lavoro a parità di retribuzione. È questo il colpo più duro al principale vantaggio competitivo dell’industria francese, in particolare rispetto ai tedeschi. Quello dei costi.
Ma nei primi anni, grazie anche alle misure fiscali di accompagnamento delle 35 ore, il disastro non si vede. Il veleno è lento, nella sua progressione, e però implacabile. I margini delle aziende iniziano a ridursi (per poter tenere bassi i prezzi), fino a quando non ci sono più i quattrini per gli investimenti (e le capacità di autofinanziamento crollano). Le imprese più fragili ed esposte chiudono, quindi la base produttiva si riduce, in un circolo perverso destinato ad auto alimentarsi. La crisi finanziaria, paradossalmente, contribuisce a evitare che la questione diventi una priorità assoluta. L’inanità della politica fa il resto.
L’allarme viene davvero lanciato solo alla fine del 2012, quando il bue è ormai scappato da tempo. Il merito va al Governo per averlo incaricato, certo, ma soprattutto all’ex ceo di Eads, Louis Gallois, che in novem- bre presenta il “Patto per la competitività dell’industria francese”. Un asciutto rapporto che in 74 pagine descrive una situazione drammatica ed elenca le cose da fare. In 12 anni, sottolinea Gallois mettendo in fila i numeri che da tempo tutti gli addetti ai lavori conoscono (o dovrebbero), il peso dell’industria francese sul Pil è sceso dal 18% al 12% (ora all’11%), gli occupati da quattro a tre milioni (ora 2,6 milioni, pari all’11,1% del totale), la quota di export su quello totale della zona euro dal 17% al 13%, i margini delle imprese industriali dal 30% al 21%, la quota di mercato europeo dei prodotti industriali francesi dal 13% al 9 per cento. L’ultimo surplus commerciale dell’industria francese è del 2004.
Il Governo di François Hollande – che all’inizio aveva proseguito l’insensato inasprimento fiscale già avviato da quello precedente di Niclolas Sarkozy – si rende finalmente conto che la Francia sta andando dritta contro il muro e vara il famoso pacchetto di alleggerimenti fiscali per le imprese (20 miliardi all’anno) il cui nome (Cice), contiene appunto – e per la prima volta - un esplicito riferimento alla competitività.
Grazie a queste misure, al calo dei tassi e a quello dei prezzi del petrolio, la situazione dell’industria francese è nettamente migliorata. I margini sono tornati ai livelli di 15 anni fa, così come l’ammontare complessivo del risultato operativo, gli investimenti sono ripartiti (+3,6% nel 2015 e +4% l’anno scorso, anche se le previsioni parlano di un nuovo stallo quest’anno), la forbice tra andamento reale dei salari e incrementi di produttività si sta restringendo, bilancia commerciale e quote di mercato si stanno finalmente stabilizzando. E il rapporto dei costi salariali rispetto alla Germania – che dall’84,3% del 2000 era passato al 99,9% del 2012 – sta nuovamente scendendo verso il 93 per cento. Sia pure con un’incidenza ancora molto forte degli oneri sociali a carico delle imprese, pari al 133% di quelli tedeschi. L’occupazione dà qualche dimostrazione di vivacità. E a partire dal secondo semestre dell’anno scorso l’anagrafe delle imprese industriali è tornata in positivo, per la prima volta dal 2009.
Il problema è appunto che questi segnali – che peraltro al momento indicano uno stop del degrado della situazione, non una netta inversione di tendenza – sono il frutto quasi esclusivamente di fattori esterni. Che in almeno due casi su tre non sembrano destinati a durare ancora a lungo. Nel frattempo, l’industria francese ha perso terreno – almeno in termini di competitività sui prezzi – rispetto alla concorrenza dell’Italia e soprattutto della Spagna (dove i livelli salariali sono sostanzialmente congelati dal 2008).
Per uscire dal tunnel in cui si trova (nonostante occasionali prove di dinamismo e intraprendenza, come dimostrano le recentissime operazioni Essilor/Luxottica, Safran/Zodiac e Technip/ Fmc) servirebbe davvero un patto a tre (industria, Governo e sindacati) della durata di almeno una decina d’anni per alzare la qualità (grazie agli investimenti) e ridurre i costi (quindi i prezzi, grazie al calo del costo del lavoro, a una legislazione del lavoro più certa e flessibile e a un sistema fiscale stabile e favorevole all’impresa). Ma francamente non sembra che i diversi attori siano pronti a raccogliere una simile sfida.
Una prova da far tremare le vene ai polsi aspetta anche il settore finanziario francese, a partire da quello bancario. Che sembra essersi lasciato alle spalle gli shock della crisi (con le disavventure della diversificazione geografica soprattutto in Grecia e Portogallo) e mostra una buona solidità e una eccellente salute finanziaria. I sei principali istituti di credito (che concentrano oltre l’80% degli asset) hanno chiuso il 2015 con ricavi in crescita del 7,3% (a 146 miliardi), un coefficiente di gestione in calo, un costo del rischio in lieve aumento (del 2,2%) ma che rimane su livelli bassi (lo 0,18% dei bilanci totali) e utili netti in crescita dell’8% (a quasi 24 miliardi). Una percentuale di incremento confermata nel primo semestre dell’anno scorso. Hanno superato brillantemente gli stress test e hanno un ratio di Npl (3,9) inferiore a quello medio europeo (5,4), con un tasso di copertura nettamente superiore (50,8 rispetto al 44,3).
Merito, stando agli analisti, dei piani di ristrutturazione varati a fine 2011 (con una forte riduzione dei costi, resa possibile anche da una età media dei dipendenti abbastanza elevata che ha consentito importanti riduzioni di personale, e un riorientamento verso le attività di banca commerciale), della cautela mostrata negli anni precedenti alla crisi (soprattutto sul fronte dei crediti immobiliari), del modello di banca universale tipico dei gruppi francesi (che molti contestano ma che loro difendono sottolineandone l’effetto di bilanciamento) e dell’elevato livello di risparmio (e di depositi) che ha favorito la stabilità di un sistema fortemente concentrato.
L’appuntamento che aspetta ora le banche francesi è quello con l’”uberizzazione” che sta rapidamente caratterizzando il settore. Imponendo un rapido e radicale cambio di modello. Con la chiusura, e la riconversione, di molte agenzie. Dalla crisi in poi ne sono già scomparse circa 3mila, ma ne restano ancora quasi 37mila e sono troppe.
Le grandi banche francesi sostengono di essere pronte. E hanno peraltro già annunciato oltre 8mila assunzioni (a tempo indeterminato) nel 2017. Ma la battaglia sarà durissima. A maggior ragione con l’entrata in vigore, tra pochi giorni, di una parte della legge Macron sulla liberalizzazione che rappresenta una sorta di “liberi tutti” dei conti correnti.
L’altro fronte sarà quello dell’internazionalizzazione. Una strada che le grandi banche francesi dovranno prima o poi riprendere a percorrere per cercare nuove fonti di crescita in uno scenario europeo che va verso il consolidamento. Anche se molti mercati evidenziano ancora rischi elevati ed eccessive problematicità.
DISFUNZIONI I costi salariali nel 2000 erano dell’84,3% rispetto a quelli della Germania e nel 2012 erano saliti fino al 99% Il peso degli oneri sociali