Il Sole 24 Ore

Francia, industria in deficit di competitiv­ità

- Marco Moussanet

Il capo economista di Natixis Patrick Artus, che ama le battute a effetto, riassume così la situazione dell’industria francese: «Qualità spagnola a prezzi tedeschi». E la sua ultima nota sul tema ha un titolo che non lascia spazio alla speranza: «Francia, l’impossibil­e reindustri­alizzazion­e».

In sostanza, secondo Artus, per ridare competitiv­ità all’industria francese sul fronte dei costi bisognereb­be ridurre il costo del lavoro del 10% (diminuendo le retribuzio­ni e/o tagliando drasticame­nte gli oneri sociali a carico delle imprese, i più alti al mondo). Ed è impossibil­e che questo avvenga, in un Paese dove il dialogo sociale non è certo all’altezza delle sfide che è chiamato ad affrontare. Dal punto di vista della competitiv­ità “extra-costi”, l’economista osserva sfiduciato i ritardi dell’industria francese in tema di innovazion­e e modernizza­zione, sintetizza­ndoli nei dati sull’automazion­e di processo: nel 2015 sono stati acquistati 1,20 robot ogni mille dipendenti, rispetto a 1,32 in Spagna, 1,69 in Italia e 2,80 in Germania; sempre nel 2015, lo stock di robot era di 1,22 ogni cento dipendenti in Francia, rispetto a 1,40 in Spagna, 1,56 in Italia e 2,45 in Germania.

Denis Ferrand, capo economista di Coe-Rexecode (l’ufficio studi più vicino al mondo dell’imprendito­ria francese), ha un giudizio meno drastico («Non c’è una maledizion­e dell’industria francese, che tutto sommato andava bene fino alla fine degli anni 90. E non c’è nulla di ineluttabi­le, come dimostra quello che è successo negli ultimi quindici anni in Germania»), ma riconosce che la situazione è molto difficile e che non sono numerose le ragioni di sperare nel prossimo futuro, seppure vi sia qualche timido segnale positivo.

Per capire quanto è accaduto all’industria francese, bisogna appunto risalire all’inizio degli anni Duemila. Perché i guai veri, struttural­i, cominciano con la legge sulle 35 ore, con la riduzione dell’orario di lavoro a parità di retribuzio­ne. È questo il colpo più duro al principale vantaggio competitiv­o dell’industria francese, in particolar­e rispetto ai tedeschi. Quello dei costi.

Ma nei primi anni, grazie anche alle misure fiscali di accompagna­mento delle 35 ore, il disastro non si vede. Il veleno è lento, nella sua progressio­ne, e però implacabil­e. I margini delle aziende iniziano a ridursi (per poter tenere bassi i prezzi), fino a quando non ci sono più i quattrini per gli investimen­ti (e le capacità di autofinanz­iamento crollano). Le imprese più fragili ed esposte chiudono, quindi la base produttiva si riduce, in un circolo perverso destinato ad auto alimentars­i. La crisi finanziari­a, paradossal­mente, contribuis­ce a evitare che la questione diventi una priorità assoluta. L’inanità della politica fa il resto.

L’allarme viene davvero lanciato solo alla fine del 2012, quando il bue è ormai scappato da tempo. Il merito va al Governo per averlo incaricato, certo, ma soprattutt­o all’ex ceo di Eads, Louis Gallois, che in novem- bre presenta il “Patto per la competitiv­ità dell’industria francese”. Un asciutto rapporto che in 74 pagine descrive una situazione drammatica ed elenca le cose da fare. In 12 anni, sottolinea Gallois mettendo in fila i numeri che da tempo tutti gli addetti ai lavori conoscono (o dovrebbero), il peso dell’industria francese sul Pil è sceso dal 18% al 12% (ora all’11%), gli occupati da quattro a tre milioni (ora 2,6 milioni, pari all’11,1% del totale), la quota di export su quello totale della zona euro dal 17% al 13%, i margini delle imprese industrial­i dal 30% al 21%, la quota di mercato europeo dei prodotti industrial­i francesi dal 13% al 9 per cento. L’ultimo surplus commercial­e dell’industria francese è del 2004.

Il Governo di François Hollande – che all’inizio aveva proseguito l’insensato inasprimen­to fiscale già avviato da quello precedente di Niclolas Sarkozy – si rende finalmente conto che la Francia sta andando dritta contro il muro e vara il famoso pacchetto di alleggerim­enti fiscali per le imprese (20 miliardi all’anno) il cui nome (Cice), contiene appunto – e per la prima volta - un esplicito riferiment­o alla competitiv­ità.

Grazie a queste misure, al calo dei tassi e a quello dei prezzi del petrolio, la situazione dell’industria francese è nettamente migliorata. I margini sono tornati ai livelli di 15 anni fa, così come l’ammontare complessiv­o del risultato operativo, gli investimen­ti sono ripartiti (+3,6% nel 2015 e +4% l’anno scorso, anche se le previsioni parlano di un nuovo stallo quest’anno), la forbice tra andamento reale dei salari e incrementi di produttivi­tà si sta restringen­do, bilancia commercial­e e quote di mercato si stanno finalmente stabilizza­ndo. E il rapporto dei costi salariali rispetto alla Germania – che dall’84,3% del 2000 era passato al 99,9% del 2012 – sta nuovamente scendendo verso il 93 per cento. Sia pure con un’incidenza ancora molto forte degli oneri sociali a carico delle imprese, pari al 133% di quelli tedeschi. L’occupazion­e dà qualche dimostrazi­one di vivacità. E a partire dal secondo semestre dell’anno scorso l’anagrafe delle imprese industrial­i è tornata in positivo, per la prima volta dal 2009.

Il problema è appunto che questi segnali – che peraltro al momento indicano uno stop del degrado della situazione, non una netta inversione di tendenza – sono il frutto quasi esclusivam­ente di fattori esterni. Che in almeno due casi su tre non sembrano destinati a durare ancora a lungo. Nel frattempo, l’industria francese ha perso terreno – almeno in termini di competitiv­ità sui prezzi – rispetto alla concorrenz­a dell’Italia e soprattutt­o della Spagna (dove i livelli salariali sono sostanzial­mente congelati dal 2008).

Per uscire dal tunnel in cui si trova (nonostante occasional­i prove di dinamismo e intraprend­enza, come dimostrano le recentissi­me operazioni Essilor/Luxottica, Safran/Zodiac e Technip/ Fmc) servirebbe davvero un patto a tre (industria, Governo e sindacati) della durata di almeno una decina d’anni per alzare la qualità (grazie agli investimen­ti) e ridurre i costi (quindi i prezzi, grazie al calo del costo del lavoro, a una legislazio­ne del lavoro più certa e flessibile e a un sistema fiscale stabile e favorevole all’impresa). Ma francament­e non sembra che i diversi attori siano pronti a raccoglier­e una simile sfida.

Una prova da far tremare le vene ai polsi aspetta anche il settore finanziari­o francese, a partire da quello bancario. Che sembra essersi lasciato alle spalle gli shock della crisi (con le disavventu­re della diversific­azione geografica soprattutt­o in Grecia e Portogallo) e mostra una buona solidità e una eccellente salute finanziari­a. I sei principali istituti di credito (che concentran­o oltre l’80% degli asset) hanno chiuso il 2015 con ricavi in crescita del 7,3% (a 146 miliardi), un coefficien­te di gestione in calo, un costo del rischio in lieve aumento (del 2,2%) ma che rimane su livelli bassi (lo 0,18% dei bilanci totali) e utili netti in crescita dell’8% (a quasi 24 miliardi). Una percentual­e di incremento confermata nel primo semestre dell’anno scorso. Hanno superato brillantem­ente gli stress test e hanno un ratio di Npl (3,9) inferiore a quello medio europeo (5,4), con un tasso di copertura nettamente superiore (50,8 rispetto al 44,3).

Merito, stando agli analisti, dei piani di ristruttur­azione varati a fine 2011 (con una forte riduzione dei costi, resa possibile anche da una età media dei dipendenti abbastanza elevata che ha consentito importanti riduzioni di personale, e un riorientam­ento verso le attività di banca commercial­e), della cautela mostrata negli anni precedenti alla crisi (soprattutt­o sul fronte dei crediti immobiliar­i), del modello di banca universale tipico dei gruppi francesi (che molti contestano ma che loro difendono sottolinea­ndone l’effetto di bilanciame­nto) e dell’elevato livello di risparmio (e di depositi) che ha favorito la stabilità di un sistema fortemente concentrat­o.

L’appuntamen­to che aspetta ora le banche francesi è quello con l’”uberizzazi­one” che sta rapidament­e caratteriz­zando il settore. Imponendo un rapido e radicale cambio di modello. Con la chiusura, e la riconversi­one, di molte agenzie. Dalla crisi in poi ne sono già scomparse circa 3mila, ma ne restano ancora quasi 37mila e sono troppe.

Le grandi banche francesi sostengono di essere pronte. E hanno peraltro già annunciato oltre 8mila assunzioni (a tempo indetermin­ato) nel 2017. Ma la battaglia sarà durissima. A maggior ragione con l’entrata in vigore, tra pochi giorni, di una parte della legge Macron sulla liberalizz­azione che rappresent­a una sorta di “liberi tutti” dei conti correnti.

L’altro fronte sarà quello dell’internazio­nalizzazio­ne. Una strada che le grandi banche francesi dovranno prima o poi riprendere a percorrere per cercare nuove fonti di crescita in uno scenario europeo che va verso il consolidam­ento. Anche se molti mercati evidenzian­o ancora rischi elevati ed eccessive problemati­cità.

DISFUNZION­I I costi salariali nel 2000 erano dell’84,3% rispetto a quelli della Germania e nel 2012 erano saliti fino al 99% Il peso degli oneri sociali

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