L’irresistibile ascesa della politica post-partiti
Sulla carta, utilizzando i vecchi criteri di lettura della politica e della società francesi, aveva tutte le carte in regola per fare un flop: ricco (di soldi fatti da sé, va ricordato), intelligente (persino un po’ troppo, quel tanto che a volte si ha l’impressione che sconfini nell’arroganza), liberal in politica e liberista in economia, esponente se ve n’è uno dell’élite (enarca, banchiere d’affari, politico potente, parigino fino al midollo, sia pure d’adozione), autore (e ispiratore) di riforme duramente contestate, discusso protagonista di copertine delle riviste people (con la sua storia sentimentale che sembra essere stata inventata da uno storyteller professionista). Chi avrebbe mai puntato un euro su uno così? Destinato ad andare a sbattere, al primo comizio in provincia, contro il muro di ostilità della Francia profonda?
Eppure...Eppure l’andamento delle cose sembra dimostrare che Emmanuel Macron – dal suo osservatorio all’Eliseo prima e a Bercy dopo - aveva capito tutto. Forse non sarà il futuro presidente della Repubblica (per quanto...), ma senz’altro è già diventato la star del post-partitismo, della politica mobile e aperta, della democrazia (apparentemente) diretta (o quantomeno più diretta), della società civile nella stanza dei bottoni. Ha dimostrato – nessuno prima di lui c’era riuscito – che in Francia c’è uno spazio politico (saranno gli elettori a dire, tra fine aprile e inizio maggio, quanto grande) per chi ha deciso di uscire dai binari dei partiti tradizionali. Riuscendo in poche settimane a far diventare tutti vecchi tranne lui.
Sicuramente è stato aiutato. E molto. Da un partito socialista che ancora una volta ha optato per il proprio suicidio. Dalla vittoria, alle primarie della destra, di un candidato piuttosto radicale. Dalla probabile assenza di un candidato centrista. Condizioni esogene che gli hanno aperto una prateria elettorale molto ampia, dal centrosinistra al centrodestra. Diciamo che ha potenzialmente a disposizione tutto il voto moderato. E se questo dovesse bastargli ad andare al ballottaggio beh, allora potrebbe davvero vincere.
Ma lui ci ha messo del suo, eccome. È stato capace di rimobilitare un pezzo di elettorato che si era ormai rifugiato nell’astensionismo, non provando più alcun interesse per una politica fatta più di beghe tra primedonne (o seconde, o terze) che di visioni e vere proposte. È riuscito a far passare, pur nella derisione generale, l’idea che ci potesse essere un movimento «progressista, né di destra né di sinistra, basato su un progetto». A incanalare la voglia di cambiamento di chi non è spinto dalla rabbia (in questo caso vota piuttosto le estreme) ma dalla frustrazione, dalla convinzione che i partiti sono superati, che «non sono più in grado di rispondere alle nuove sfide». E in nove mesi ha messo in piedi un movimento che ha ormai 150mila iscritti e l’obiettivo di costruire in Parlamento «una maggioranza presidenziale» composta per la metà da persone diverse dai politici di professione. Insomma, anche se Macron non sarà il successore di Hollande all’Eliseo e dovrà magari aspettare il turno successivo, non sarà certo lo sconfitto di questo evento elettorale europeo.