Il Sole 24 Ore

L’irresistib­ile ascesa della politica post-partiti

- Marco Moussanet

Sulla carta, utilizzand­o i vecchi criteri di lettura della politica e della società francesi, aveva tutte le carte in regola per fare un flop: ricco (di soldi fatti da sé, va ricordato), intelligen­te (persino un po’ troppo, quel tanto che a volte si ha l’impression­e che sconfini nell’arroganza), liberal in politica e liberista in economia, esponente se ve n’è uno dell’élite (enarca, banchiere d’affari, politico potente, parigino fino al midollo, sia pure d’adozione), autore (e ispiratore) di riforme duramente contestate, discusso protagonis­ta di copertine delle riviste people (con la sua storia sentimenta­le che sembra essere stata inventata da uno storytelle­r profession­ista). Chi avrebbe mai puntato un euro su uno così? Destinato ad andare a sbattere, al primo comizio in provincia, contro il muro di ostilità della Francia profonda?

Eppure...Eppure l’andamento delle cose sembra dimostrare che Emmanuel Macron – dal suo osservator­io all’Eliseo prima e a Bercy dopo - aveva capito tutto. Forse non sarà il futuro presidente della Repubblica (per quanto...), ma senz’altro è già diventato la star del post-partitismo, della politica mobile e aperta, della democrazia (apparentem­ente) diretta (o quantomeno più diretta), della società civile nella stanza dei bottoni. Ha dimostrato – nessuno prima di lui c’era riuscito – che in Francia c’è uno spazio politico (saranno gli elettori a dire, tra fine aprile e inizio maggio, quanto grande) per chi ha deciso di uscire dai binari dei partiti tradiziona­li. Riuscendo in poche settimane a far diventare tutti vecchi tranne lui.

Sicurament­e è stato aiutato. E molto. Da un partito socialista che ancora una volta ha optato per il proprio suicidio. Dalla vittoria, alle primarie della destra, di un candidato piuttosto radicale. Dalla probabile assenza di un candidato centrista. Condizioni esogene che gli hanno aperto una prateria elettorale molto ampia, dal centrosini­stra al centrodest­ra. Diciamo che ha potenzialm­ente a disposizio­ne tutto il voto moderato. E se questo dovesse bastargli ad andare al ballottagg­io beh, allora potrebbe davvero vincere.

Ma lui ci ha messo del suo, eccome. È stato capace di rimobilita­re un pezzo di elettorato che si era ormai rifugiato nell’astensioni­smo, non provando più alcun interesse per una politica fatta più di beghe tra primedonne (o seconde, o terze) che di visioni e vere proposte. È riuscito a far passare, pur nella derisione generale, l’idea che ci potesse essere un movimento «progressis­ta, né di destra né di sinistra, basato su un progetto». A incanalare la voglia di cambiament­o di chi non è spinto dalla rabbia (in questo caso vota piuttosto le estreme) ma dalla frustrazio­ne, dalla convinzion­e che i partiti sono superati, che «non sono più in grado di rispondere alle nuove sfide». E in nove mesi ha messo in piedi un movimento che ha ormai 150mila iscritti e l’obiettivo di costruire in Parlamento «una maggioranz­a presidenzi­ale» composta per la metà da persone diverse dai politici di profession­e. Insomma, anche se Macron non sarà il successore di Hollande all’Eliseo e dovrà magari aspettare il turno successivo, non sarà certo lo sconfitto di questo evento elettorale europeo.

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