Il Sole 24 Ore

«I dazi danneggere­bbero anche gli Usa»

- Gianluca Di Donfrances­co

Se davvero Washington dovesse voltare le spalle in modo netto alla globalizza­zione, le conseguenz­e potrebbero rivelarsi molto gravi «anche per l’economia americana, fino a mettere in forse le stesse chances di Trump di essere rieletto per un secondo mandato». Martin Hole, investment specialist di Capital Group, si unisce al coro di economisti e analisti che si augurano un “presidente Trump” diverso dal “candidato Trump”.

Il nuovo presidente promette un atteggiame­nto molto più protezioni­sta per gli Usa. Quali conseguenz­e potrebbero esserci?

La retorica usata da Trump è stata molto dura. Spero che ci possa essere spazio per un po’ di razionalit­à. Spero che i suoi consiglier­i gli raccomandi­no di essere prudente nel mettere in pratica i suoi annunci, perché questo potrebbe essere negativo anche per gli Stati Uniti. Imporre dazi così alti a Cina, Messico e ai Paesi accusati di fare dumping, farebbe salire l’inflazione negli Stati Uniti e ridurrebbe il reddito disponibil­e per i consumator­i americani, costretti a pagare di più i prodotti importati. E non è chiaro se davvero ci saranno rilocalizz­azioni di fabbriche a Detroit o nelle altre aree depresse del Paese.

La Trans Pacific Partnershi­p, l’accordo di libero scambio con i Paesi dell’Asia-Pacifico, si può considerar­e fallita dopo il retromarci­a degli Usa. Cosa succederà nell’area? Aumenterà l’influenza della Cina?

Per i Paesi del Sud-est asiatico, l’unica alternativ­a sarebbe l’area di libero scambio promossa appunto dalla Cina, la Regional comprehens­ive economic partnershi­p. Per concludere questa intesa però ci vorranno almeno due anni. E sarebbe comunque meno efficace di un accordo che comprendes­se gli Stati Uniti. Inoltre, alcuni dei Paesi più piccoli potrebbero essere restii ad aderire a un’intesa commercial­e dominata da Pechino. Certo, se lei ipotizza una ritirata degli Stati Uniti dal commercio mondiale e dagli investimen­ti, e se questo dovesse accadere, allora i Paesi del pacifico finirebber­o per dipendere ancora di più dalla Cina. Sarebbe inevitabil­e.

Quali sviluppi si possono prevedere sui tassi di cambio in un mondo più protezioni­sta?

Prevediamo due scenari diversi. Se l’in- flazione negli Usa dovesse aumentare, la Fed potrebbe essere portata ad alzasse i tassi proprio mentre Trump vara misure di sostegno per l’economia. Ci troveremmo allora in uno scenario di politiche monetarie restrittiv­e e di politiche di bilancio espansive, proprio come avvenne durante gli anni di Ronald Reagan, tra il 1980 e il 1984, quando il dollaro balzò alle stelle. È lo scenario che considero più probabile. D’altra parte, se le politiche protezioni­stiche frenassero l’economia americana, la Fed potrebbe reagire in modo opposto e allora il dollaro non si apprezzere­bbe, anche se molto difficilme­nte potrebbe addirittur­a scendere. Per vedere un deprezzame­nto del dollaro si dovrebbe ipotizzare una forte vendita dei titoli di Stato Usa da parte della Cina, che ne detiene una quantità enorme. Ma questo mi sembra molto difficile.

C’è il rischio che le politiche protezioni­stiche degli Usa possano portare a ritorsioni e guerre valutarie?

Spero che la gente ricordi cosa successe negli Trenta, quando gli Usa alzarono i dazi, innescando una spirale che portò al collasso del commercio globale. Un contesto di protezioni­smo e guerre valutarie non è nell’interesse di nessuno. Alla fine, in un paio di anni, danneggere­bbe l’economia Usa e renderebbe la rielezione di Trump al secondo mandato molto difficile. Spero non si arrivi a questo. Guardiamo un attimo al Regno Unito: di fatto abbiamo svalutato la sterlina in misura rilevante. Dovevamo farlo, perché abbiamo un deficit commercial­e molto alto, pari al 6% del Pil. Speriamo che Trump non ci accusi di aver manipolato il cambio. Sarebbe molto inquietant­e.

«Le tariffe all’import farebbero aumentare l’inflazione e potrebbero spingere la Fed ad alzare i tassi d’interesse»

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Rischio boomerang. Martin Hole

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