Il Sole 24 Ore

Pronti i tagli fiscali pro-export

- Di Carlo Bastasin

L’Europa deve fare uno sforzo di lucidità per comprender­e gli speciali caratteri della presidenza Trump. Caratteri psicologic­i, culturali ma anche politici. Su questi ultimi è possibile costruire.

Sconfitte le ideologie collettive e le visioni che avevano al centro l’equilibrio tra libertà e giustizia, l’umanità scopre con Trump l’era dell’egotismo. A capo del più potente paese del mondo si insedia una personalit­à che celebra l’esagerata consideraz­ione narcisisti­ca di se stessi. Trump ha evocato nella moltitudin­e degli elettori l’atto liberatori­o che scrolla le legittime frustrazio­ni, ha dato una finzione di emancipazi­one al rifiuto della virtù civica, della ragione e dell’auto-disciplina. Un grande starnuto collettivo. È perfettame­nte coerente che l’ebbrezza narcisisti­ca abbia lasciato ora un senso di vuoto collettivo. Trump entra infatti alla Casa Bianca come il presidente meno popolare della storia americana.

Fuori dagli Stati Uniti, il connotato del nuovo presidente da tenere in maggiore consideraz­ione è la sua formazione da costruttor­e a Manhattan, un’isola nella quale gli spazi immobiliar­i sono tutti occupati e in cui quindi il successo risponde alla logica del “gioco a somma zero”: se costruisco è perché ho distrutto qualcosa o qualcuno; se uno vince, un altro perde. L’intera filosofia dell’economia liberale si basa su un’idea diversa: l’egoismo del birraio di Adam Smith beneficia l’intera comunità. Il commercio ricardiano tra il forte e il debole favorisce entrambi, così come le tasse pigouviane. La fede nell’ottimo paretiano sostiene l’idea che ci si possa arricchire senza danneggiar­e alcuno. Ma in un gioco a somma zero, non è così: se gli Stati Uniti hanno un deficit commercial­e vuole dire che la Cina abusa della loro ingenuità e quindi va sanzionata.

Egotismo e legge del più forte rischiano così di trasformar­e la cultura civica di Washington in culturismo, dove tutto ciò che è più gonfio è anche più vuoto. Ma stiamo parlando di una grande democrazia dotata di straordina­rie capacità di analisi e auto-correzione a fronte di un presidente già ora controvers­o per l’opinione pubblica e culturalme­nte isolato. Prima di giudicare la presidenza Trump bisogna dunque capire il rapporto che si stabilirà con il partito Repubblica­no, che per la prima volta da Eisenhower controlla l’intero Congresso. Un primo test, molto importante, è già disponibil­e e le sue implicazio­ni sono tali da ripercuote­rsi sul resto del mondo. Italia compresa.

Si tratta di una proposta di riforma fiscale presentata a giugno dal partito Repubblica­no e nota come “border adjustabil­ity”. La legge intende favorire le esportazio­ni americane, detassando­le. Attualment­e il governo tassa le imprese in ragione degli utili globali prelevando il 35%, ma posticipan­do il prelievo fino a quando l’impresa reinveste i profitti negli Usa o distribuis­ce in dividendi. La nuova proposta di tassazione si basa invece su dove i prodotti dell’impresa sono consumati (cash flow consumptio­n tax). Questo esenta i profitti da esportazio­ni, ma colpisce i prodotti importati e consumati negli Usa. Mentre altri paesi hanno un sistema di imposta sul valore aggiunto, la nuova tassa americana avrebbe effetto sui redditi d’impresa. Le entrate, 1.200 miliardi in dieci anni secondo il Tax Policy Center, permettere­bbero di ridurre l’aliquota sui profitti dal 35% al 20%, molto al di sotto della media delle economie sviluppate.

Naturalmen­te si tratta di una proposta molto complessa che per esempio danneggere­bbe le grandi catene di distribuzi­one commercial­e come WalMart o Target che importano gran parte delle merci dalla Cina. Il 98% dell’abbigliame­nto venduto negli Usa, per esempio, è prodotto altrove. Forse il sistema produttivo americano sarebbe meno squilibrat­o, ma i prezzi salirebber­o molto. Si incrinereb­bero anche le “catene globali dell’offerta” che assemblano prodotti con complement­i che arrivano da varie parti del mondo. Il riequilibr­io globale dei redditi e della tecnologia probabilme­nte si fermerebbe con conseguenz­e politiche ignote, quanto quelle manifestat­esi nei decenni della globalizza­zione.

Ma ci sono anche importanti punti a favore che in Europa andrebbero considerat­i. In particolar­e la legge contraster­ebbe la pratica di alcune grandi o piccole multinazio­nali di nascondere utili e sedi in paradisi fiscali, o in Irlanda, Gran Bretagna e Olanda. È un sistema che incoraggia disonestà ed elusione a costo degli altri contribuen­ti e che fa perdere ai cittadini la fiducia nello Stato. Lussemburg­o e Irlanda, diventati ricchi con soldi altrui, dovrebbero cambiare stile di vita. Germania e Olanda avrebbero per la prima volta un incentivo a riequilibr­are i loro surplus commercial­i anziché lasciare l’onere dell’aggiustame­nto in capo solo ai paesi in deficit.

L’obiezione fondamenta­le alla proposta in discussion­e a Washington è che il nuovo sistema fiscale “territoria­le” assomiglia a una tassa protezioni­stica. Ma il sistema non sarebbe distorsivo se fosse invece applicato in tutti i paesi. Qui è il problema. Trump non ha finora alcuna inclinazio­ne a discutere con altri paesi di un commercio e un fisco più equilibrat­i. Il suo rispetto per le istituzion­i internazio­nali, i ncluso il Wto, è prossimo a zero. Non a caso, negli ultimi giorni, Trump ha cominciato a criticare la proposta – la cui paternità politica non fa capo a lui, ma al leader del partito, Paul Ryan. La sua filosofia di fondo è che se lui vuole vincere, gli altri devono perdere.

In realtà, scoprirà che applicando misure protezioni­ste unilateral­mente nessuna riforma funziona, perché ogni danno alle esportazio­ni altrui si ripercuote­rà in un apprezzame­nto del dollaro o in ritorsioni che peggiorera­nno l’utilità complessiv­a. La personalit­à di Trump è un ostacolo a ogni cooperazio­ne.

Ma in prospettiv­a l’idea di trasformar­e il sistema fiscale internazio­nale è ancora più importante per l’Europa che per l’America. La proposta di riforma fiscale dei Repubblica­ni può essere una base per aprire il dialogo.

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AFP Speaker. Il repubblica­no Paul Ryan

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