Pronti i tagli fiscali pro-export
L’Europa deve fare uno sforzo di lucidità per comprendere gli speciali caratteri della presidenza Trump. Caratteri psicologici, culturali ma anche politici. Su questi ultimi è possibile costruire.
Sconfitte le ideologie collettive e le visioni che avevano al centro l’equilibrio tra libertà e giustizia, l’umanità scopre con Trump l’era dell’egotismo. A capo del più potente paese del mondo si insedia una personalità che celebra l’esagerata considerazione narcisistica di se stessi. Trump ha evocato nella moltitudine degli elettori l’atto liberatorio che scrolla le legittime frustrazioni, ha dato una finzione di emancipazione al rifiuto della virtù civica, della ragione e dell’auto-disciplina. Un grande starnuto collettivo. È perfettamente coerente che l’ebbrezza narcisistica abbia lasciato ora un senso di vuoto collettivo. Trump entra infatti alla Casa Bianca come il presidente meno popolare della storia americana.
Fuori dagli Stati Uniti, il connotato del nuovo presidente da tenere in maggiore considerazione è la sua formazione da costruttore a Manhattan, un’isola nella quale gli spazi immobiliari sono tutti occupati e in cui quindi il successo risponde alla logica del “gioco a somma zero”: se costruisco è perché ho distrutto qualcosa o qualcuno; se uno vince, un altro perde. L’intera filosofia dell’economia liberale si basa su un’idea diversa: l’egoismo del birraio di Adam Smith beneficia l’intera comunità. Il commercio ricardiano tra il forte e il debole favorisce entrambi, così come le tasse pigouviane. La fede nell’ottimo paretiano sostiene l’idea che ci si possa arricchire senza danneggiare alcuno. Ma in un gioco a somma zero, non è così: se gli Stati Uniti hanno un deficit commerciale vuole dire che la Cina abusa della loro ingenuità e quindi va sanzionata.
Egotismo e legge del più forte rischiano così di trasformare la cultura civica di Washington in culturismo, dove tutto ciò che è più gonfio è anche più vuoto. Ma stiamo parlando di una grande democrazia dotata di straordinarie capacità di analisi e auto-correzione a fronte di un presidente già ora controverso per l’opinione pubblica e culturalmente isolato. Prima di giudicare la presidenza Trump bisogna dunque capire il rapporto che si stabilirà con il partito Repubblicano, che per la prima volta da Eisenhower controlla l’intero Congresso. Un primo test, molto importante, è già disponibile e le sue implicazioni sono tali da ripercuotersi sul resto del mondo. Italia compresa.
Si tratta di una proposta di riforma fiscale presentata a giugno dal partito Repubblicano e nota come “border adjustability”. La legge intende favorire le esportazioni americane, detassandole. Attualmente il governo tassa le imprese in ragione degli utili globali prelevando il 35%, ma posticipando il prelievo fino a quando l’impresa reinveste i profitti negli Usa o distribuisce in dividendi. La nuova proposta di tassazione si basa invece su dove i prodotti dell’impresa sono consumati (cash flow consumption tax). Questo esenta i profitti da esportazioni, ma colpisce i prodotti importati e consumati negli Usa. Mentre altri paesi hanno un sistema di imposta sul valore aggiunto, la nuova tassa americana avrebbe effetto sui redditi d’impresa. Le entrate, 1.200 miliardi in dieci anni secondo il Tax Policy Center, permetterebbero di ridurre l’aliquota sui profitti dal 35% al 20%, molto al di sotto della media delle economie sviluppate.
Naturalmente si tratta di una proposta molto complessa che per esempio danneggerebbe le grandi catene di distribuzione commerciale come WalMart o Target che importano gran parte delle merci dalla Cina. Il 98% dell’abbigliamento venduto negli Usa, per esempio, è prodotto altrove. Forse il sistema produttivo americano sarebbe meno squilibrato, ma i prezzi salirebbero molto. Si incrinerebbero anche le “catene globali dell’offerta” che assemblano prodotti con complementi che arrivano da varie parti del mondo. Il riequilibrio globale dei redditi e della tecnologia probabilmente si fermerebbe con conseguenze politiche ignote, quanto quelle manifestatesi nei decenni della globalizzazione.
Ma ci sono anche importanti punti a favore che in Europa andrebbero considerati. In particolare la legge contrasterebbe la pratica di alcune grandi o piccole multinazionali di nascondere utili e sedi in paradisi fiscali, o in Irlanda, Gran Bretagna e Olanda. È un sistema che incoraggia disonestà ed elusione a costo degli altri contribuenti e che fa perdere ai cittadini la fiducia nello Stato. Lussemburgo e Irlanda, diventati ricchi con soldi altrui, dovrebbero cambiare stile di vita. Germania e Olanda avrebbero per la prima volta un incentivo a riequilibrare i loro surplus commerciali anziché lasciare l’onere dell’aggiustamento in capo solo ai paesi in deficit.
L’obiezione fondamentale alla proposta in discussione a Washington è che il nuovo sistema fiscale “territoriale” assomiglia a una tassa protezionistica. Ma il sistema non sarebbe distorsivo se fosse invece applicato in tutti i paesi. Qui è il problema. Trump non ha finora alcuna inclinazione a discutere con altri paesi di un commercio e un fisco più equilibrati. Il suo rispetto per le istituzioni internazionali, i ncluso il Wto, è prossimo a zero. Non a caso, negli ultimi giorni, Trump ha cominciato a criticare la proposta – la cui paternità politica non fa capo a lui, ma al leader del partito, Paul Ryan. La sua filosofia di fondo è che se lui vuole vincere, gli altri devono perdere.
In realtà, scoprirà che applicando misure protezioniste unilateralmente nessuna riforma funziona, perché ogni danno alle esportazioni altrui si ripercuoterà in un apprezzamento del dollaro o in ritorsioni che peggioreranno l’utilità complessiva. La personalità di Trump è un ostacolo a ogni cooperazione.
Ma in prospettiva l’idea di trasformare il sistema fiscale internazionale è ancora più importante per l’Europa che per l’America. La proposta di riforma fiscale dei Repubblicani può essere una base per aprire il dialogo.