Il Sole 24 Ore

Il BTp e quel tasso del 2% legato al filo dei titoli Usa

- Maximilian Cellino

Qualcuno si è forse stupito vedendo due giorni fa i rendimenti dei titoli di Stato europei salire proprio nel giorno in cui Mario Draghi difendeva la politica ultra-espansiva Bce dagli attacchi dei «falchi», lasciando il mercato con l’impression­e che i riacquisti dell’Eurotower possano proseguire oltre la scadenza di dicembre. La prima risposta che un investitor­e può essersi dato è che i prossimi mesi saranno comunque densi di tensione dalle parti di Francofort­e, complice un’inflazione che in Germania supererà il 2% proprio in vista delle elezioni. Commenti rilasciati subito dopo l’incontro stampa di Draghi come quello di Clemens Fuest, presidente dell’istituto tedesco di ricerca Ifo, che ha espresso rammarico perché il ritmo dei riacquisti dovrebbe invece «essere ridotto di 10 miliardi di euro ogni mese a partire da aprile» danno un’idea della volatilità a cui potranno essere sottoposti i bond sovrani nel breve termine.

Dietro al ritorno del tasso del BTp decennale sopra al 2% per la prima volta dopo oltre un mese ci sono però sicurament­e altre ragioni, e per una volta tanto non si parla di questioni esclusivam­ente italiane. Il declassame­nto annunciato da Dbrs una settimana fa è stato anzi sostanzial­mente ignorato dai titoli di debito di casa nostra, prova ne sia che lo spread con la Germania rimane ancorato attorno quota 160 ormai da tempo. In più, i rendimenti sulle scadenze più brevi sono rimasti stabili, circostanz­a che dimostra da una parte come non ci sia più tensione del solito sull’Italia.

In questo momento a guidare l’andamento del BTp sono piuttosto il Bund tedesco e, risalendo a monte, il Treasury. In concomitan­za con l’insediamen­to alla Presidenza di Donald Trump, il titolo di Stato Usa ha infatti ripreso la marcia degli ultimi mesi che si era interrotta la settimana scorsa quando, secondo i dati Epfa riportati da BofA Merrill Lynch, i governativ­i avevano registrato il primo afflusso netto di investimen­ti (1 miliardo di dollari) da un mese e mezzo.

Servirà tempo per capire come le politiche (effettive) del nuovo inquilino della Casa Bianca potranno impattare sui rendimenti americani e, di riflesso, anche su quelli europei che in questo momento si muovono nella stessa direzione. Sotto questo aspetto può non far piacere sapere che la tendenza rialzista è però in atto già da ben prima delle elezioni: i dati più recenti del Tesoro Usa che fotografan­o le posizioni degli investitor­i esteri mostrano deflussi netti mensili per 96 miliardi nel mese di novembre e 350 miliardi da inizio aprile.

Gran parte di questo effetto è dovuto alle liquidazio­ni di riserve operate dalla Banca centrale cinese (il cui comportame­nto resta poco prevedibil­e). Il fatto però che le vendite siano state in parte riassorbit­e da asset manager, fondi pensione e assicurazi­oni rappresent­a un’arma a doppio taglio perché, come sottolinea Chiara Cremonesi di UniCredit, questa categoria di investitor­i è tipicament­e più dinamica e le loro posizioni in Treasury hanno raggiunto un livello storicamen­te elevato . Se a questo si aggiunge il possibile aumento dell’offerta di titoli derivante dalla politica fiscale espansiva promessa da Trump, la pressione sui bond Usa sembra destinata a crescere. E allora anche il 2% per il BTp decennale potrebbe essere soltanto un punto di passaggio.

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