Dietro il quadro frammentato la «solitudine» dei leader
Nei due maggiori paesi dell’Unione europea, Germania e Francia, il 2018 sarà anno di elezioni. In primavera i francesi sceglieranno il loro presidente, in autunno toccherà ai tedeschi eleggere il parlamento, da cui nascerà il governo. Voteremo anche noi italiani: al solito sapendolo all’ultimo, un paio di mesi prima. La fabbrica dei contrasti nella nostra politica non si ferma mai , nemmeno nei frangenti più istituzionali. Forse a giugno, forse in autunno, forse all'inizio del 2018. Difficile prevedere le conseguenze dei risultati elettorali sull’Unione europea, ed anche nei singoli paesi. Difficile nei due paesi limitrofi: ogni partito ha scelto il proprio candidato alla presidenza della repubblica francese, il proprio aspirante cancelliere nella repubblica federale tedesca. Difficilissimo da noi, se non impossibile: non solo non sappiamo in quale stagione si andrà a votare, ma è buio pesto dentro i partiti, sulle eventuali alleanze, sui candidati alla guida del governo, perfino sui meccanismi di voto.
Non è ancora in atto, nella nostra comunità politica, alcuno dei rituali che fervono negli ultimi mesi di legislatura: partiti che serrano le fila, alla ricerca della coesione richiesta almeno in campagna elettorale; che definiscono le alleanze, o cercano di riproporle; che scelgono, se non i propri candidati leader, il procedimento con il quale sceglierli; alcuni partiti stentano a conoscere, con buona approssimazione, gli stessi confini del proprio territorio; di abbozzare le liste elettorali , per di più in assenza di una legge elettorale, nemmeno a parlarne. La solita, originale, imprevedibile politica italiana, incomprensibile a tutto il resto del mondo, stranieri ivi residenti compresi? No: questa volta è peggio.
Se ci saranno una destra, o più destre alleate o in cagnesco le une con le altre, non è dato ad oggi sapere. Ugualmente a sinistra, anzi: non si è d’accordo su quanti partiti realmente di sinistra vi siano, su chi sia di sinistra e chi no all’interno degli stessi, o chi non abbastanza, o chi troppo. Difficilmente ci sarà un “centro” - vanto, croce, delizia o debolezza della politica nazionale -: che sta al centro solo per vedere la consistenza e i movimenti di destra e sinistra, e le successive convergenze. Non mancheranno i populisti, ma in versione made in Italy: o scimmiottano soggetti che hanno avuto un certo successo in altri paesi, o sono incollocabili nella geografia politica. Per capirlo, bisogna guardare le espulsioni, o le fuoruscite per prevenire le espulsioni, dal movimento cinquestelle: chi esce, schizza di qua o di là, in tutte le direzioni.
Il primo metodo per capire qualcosa, è quello di individuare le cause di questa situazione. Quelle contingenti – ritardi, sviste, relazioni interpartitiche - si supereranno in parte con le astuzie dello spirito di sopravvivenza, in parte con la nuova legge elettorale, dove le astuzie farebbero solo guai, ma sono una grande tentazione.
Le cause profonde, strutturali vanno ricercate nel passato recente: la principale è la crisi di leadership, che attraversa le democrazie a ogni latitudine, e da noi ha connotati peculiari. Strano a dirsi: il nostro paese ha conosciuto negli ultimi venticinque anni due diverse e forti leadership, fenomeno raro nel panorama internazionale. Sono leadership che nascono dall’azzeramento, e auto azzeramento, delle radici politiche tradizionali, per ragioni troppo note per analizzarle qui. E sono soprattutto entrambe, nelle loro diversità, leadership di personalità dominanti, autosufficienti, emozionali, epperò incapaci di riprodursi. Leader è chi si pone l’obiettivo di formare altri leader, chi opera per la successione a se stesso. Sono mancati i fattori essenziali della capacità di guida: l’orizzontalità, la collegialità, l’altruismo, lo sviluppo per centri concentrici successivi, accanto al capo: nella politica dapprima, quindi nella società, nel corpo elettorale, nel paese, via via disperdendo i connotati di parte, ed accentuando quelli qualitativi. Caratteri necessari, che si espandono a cerchi successivi e concentrici , per formare una struttura solida e competente, capace di sopravvivere al capostipite. Una dirigenza vasta, capace di guidare il paese da dentro, a tutti i livelli. Questo non hanno saputo fare, o voluto fare, due personalità politiche indiscusse, non solo politiche, quali Berlusconi prima e Renzi poi: che sono rimasti leader soli, improduttivi, in un certo senso sterili. Al fondo, forse in entrambi una non piena sicurezza di sé.
Un po', contribuisce il fatto che la giovane democrazia italiana non ha sentito il bisogno di personalità dominanti nella prima fase, quella dei partiti, grandi e meno grandi – e quando ne ha incontrata una come quella di Craxi, l’ha accolta con diffidenza -; e non ne ha esperienza. Il termine leadership è difficilmente traducibile nella nostra lingua con un solo sostantivo. Ora è il momento di disegnare i caratteri di una leadership per un sistema parlamentare al passo con i tempi. E di cercarla dentro i partiti, tutti, attraverso la diffusione di sufficienti pratiche di democrazia all’interno dei medesimi. Anche utilizzando, attraverso un’auspicata resipiscenza, le due personalità citate, ma soprattutto la seconda, per ragioni anagrafiche e di struttura dei rispettivi partiti.
La crisi dei partiti ha altre cause, che potranno essere in successiva occasione esaminate. Una, fra tutte, va almeno nominata: manca una politica che sia non solo di partiti, ma di istituzioni. Che non si esaurisca nella contrapposizione, che non difenda i propri uomini a qualunque costo, che non trasformi il garantismo, sacrosanto sul piano giurisdizionale, in un diritto al mantenimento del ruolo politico. Un problema complesso, da non trattare con banalità.