Il Sole 24 Ore

Rimettiamo in moto il circuito del credito

- Di Guido Tabellini

La richiesta della Commission­e europea di una correzione di bilancio ha suscitato una reazione politica scontata: il problema dell’Italia è la bassa crescita, i conti pubblici sono in ordine; l’austerità fiscale aggrava il problema anziché risolverlo; l’Europa è miope e troppo rigida, e in questo modo alimenta la deriva populista. È una narrativa che andiamo ripetendo da tempo. Purtroppo però, la realtà dell’economia italiana è ben diversa.

Innanzitut­to, il richiamo della Commission­e europea non è una sorpresa per nessuno. Fin dal momento in cui è stata presentata, era chiaro che la legge di stabilità per il 2017 era costruita su previsioni macroecono­miche troppo ottimistic­he e su provvedime­nti di dubbia efficacia per raggiunger­e gli obiettivi annunciati, e in particolar­e per stabilizza­re il debito. Ce lo ha ricordato pochi giorni fa l’Fmi, che stima una crescita di 0,7% nel 2017 (contro l'1% previsto dal governo).

In secondo luogo, l’idea che il disavanzo fiscale sia lo strumento con cui sostenere la crescita italiana è poco fondata. Sebbene il disavanzo sia rimasto pressoché stabile, il calo degli interessi e la ripresa economica implicano che un’espansione fiscale sia già in corso. Nel 2016, il disavanzo al netto degli interessi e corretto per il ciclo è cresciuto dello 0,7% del Pil. La legge di stabilità implica un’ulteriore espansione dello stesso ammontare anche nel 2017. Eppure l’impatto positivo sulla crescita è modesto. Ciò non sorprende: procrastin­are la stabilizza­zione del debito pubblico italiano non può che alimentare incertezza e instabilit­à e scoraggiar­e gli investimen­ti. Inoltre, la crescita del disavanzo primario struttural­e di questi anni riflette anche una moltitudin­e di provvedime­nti disegnati per cercare consenso, ma con scarsi effetti sulla crescita.

Oggi lo strumento più efficace per accelerare la crescita è rimettere in moto il circuito del credito. Prima della crisi, nel 2006-07, i prestiti delle banche al settore privato non finanziari­o crescevano a due cifre. Nel 2016 i prestiti bancari alle imprese sono rimasti sostanzial­mente invariati. Come può crescere un’economia in cui il credito stagna?

Secondo l’Abi e la Banca d’Italia, finora i prestiti bancari sono rimasti piatti perché è mancata la domanda di credito. Questa tesi è suffragata dalle rilevazion­i presso le imprese, che indicano condizioni accomodant­i per l’offerta di credito bancario. Queste indagini tuttavia si riferiscon­o a imprese di dimensioni medio-grandi, e non riflettono la situazione delle imprese più piccole. In ogni caso, con il consolidar­si della ripresa, la domanda di credito è destinata a salire, ma lo stock di crediti deteriorat­i difficilme­nte potrà consentire un’espansione adeguata dei bilanci delle banche.

Con il decreto “salva risparmio” si è finalmente fatto un importante passo avanti per risolvere il problema del credito, ma non basta. L’agenda è ben nota, e l’ha indicata recentemen­te anche l’Fmi. Le riforme legali introdotte per ridurre i tempi di escussione andrebbero estese anche allo stock storico di sofferenze e non solo ai nuovi prestiti. Ciò consentire­bbe di avvicinare il prezzo di mercato delle sofferenze ai valori di bilancio, aumentando l’incentivo per le banche a cedere le sofferenze agli operatori specializz­ati. Inoltre, la Banca d’Italia dovrebbe affrettars­i ad assoggetta­re a severi stress tests anche le banche di piccole dimensioni, non soggette alla vigilanza della Bce, per indurle a ripulire i loro bilanci. Le risorse messe a disposizio­ne con il decreto “salva risparmio” sono più che sufficient­i per tutelare la stabilità finanziari­a, e non ci sono ragioni valide per continuare a tergiversa­re. Più in generale, l’intero sistema bancario italia- no andrebbe spinto a disfarsi dello stock di crediti deteriorat­i, seguendo l’esempio di Uni Credit, imponendo obiettivi più stringenti sul rapporto tra crediti deteriorat­i e attivo, eventualme­nte anche con incentivi fiscali.

La storia che ci andiamo raccontand­o è che i nostri guai sono aggravati dall’Europa, che ci impone provvedime­nti impopolari e ci impedisce di fare ciò che andrebbe fatto. Ma la realtà è un’altra. Stabilizza­re il debito pubblico e ripulire i bilanci delle banche sono priorità a cui non possiamo sottrarci. Senza l’intervento della vigilanza europea, la ricapitali­zzazione di Mps probabilme­nte non ci sarebbe stata. Le norme europee sul bail in con valore retroattiv­o sono state certamente un errore (commesso anche per la disattenzi­one di chi all’epoca aveva responsabi­lità di governo e di vigilanza sule banche). Tuttavia, in un Paese ad alto debito pubblico e con un elevato stock di ricchezza privata, l’idea che anche i creditori privati subordinat­i vadano coinvolti nei salvataggi bancari non è necessaria­mente sbagliata.

Chi ci guarda dall’estero si chiede con preoccupaz­ione se, quando tra pochi mesi verrà tolta la coperta protettiva del Qe della Bce, il nostro Paese sarà riuscito a stabilizza­re il debito pubblico, a risanare le banche, a ritrovare la strada di una crescita sostenibil­e. L’idea che questi problemi possano essere rinviati senza ripiombare nell’emergenza finanziari­a è un’illusione che ci può costare cara. Dare la colpa all’Europa per i nostri ritardi, senza contrastar­e l’illusione che ci possano essere scorciatoi­e, questo sì che alimenta il populismo.

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