Quella santa alleanza tra populismo e nazionalismo
Sul fatto che il mondo stia cambiando, c’è poco da discutere. Si consideri cosa è successo nelle ultime ore. Il nuovo presidente americano Donald Trump afferma, nel suo discorso inaugurale dell'altro ieri, che la sua politica sarà inequivocabilmente protezionista e isolazionista. Si tratta di una rottura radicale con gli Stati Uniti postbellici, impegnati a costruire le istituzioni della cooperazione internazionale e della loro gestione multilaterale. Qualche giorno prima, il primo ministro inglese Theresa May aveva affermato in modo altrettanto inequivoco che anche il Regno Unito ha deciso di pensare innanzitutto a sé stesso. Con una tempistica formidabile (il giorno dopo un’intervista al Times di Donald Trump in cui quest’ultimo esaltava la Brexit come una vera e propria svolta storica del mondo occidentale), il primo ministro inglese ha affermato con durezza (in un discorso tenuto alla Lancaster House di Londra) che il Regno Unito intende uscire anche dal mercato unico, non solo dall’Unione europea (Ue). Per stipulare quindi accordi commerciali bilaterali con altri Paesi del mondo, ma in particolare con gli Stati Uniti di Donald Trump. Paradossalmente, il protezionismo economico e culturale è ritornato ad essere popolare nei due Paesi tradizionalmente bastioni del libero mercato.
L’attrattività del protezionismo è molto forte però anche all’interno dell’Europa. Con inevitabili contraddizioni. I Paesi dell’Europa dell’Est interpretano il protezionismo in termini principalmente culturali, in nome della purezza etnica della propria nazione. Anche se, contemporaneamente, hanno bisogno del mercato unico, con i relativi fondi di coesione e la libertà di circolazione dei propri lavoratori. Ma anche nell’Europa dell’Ovest il vento nazionalista spira più forte che mai. Si guardi la Francia. Marine Le Pen potrà anche perdere nelle prossime elezioni presidenziali della primavera del 2017, ma la vittoria del più accreditato dei suoi concorrenti, il gollista François Fillon, non è una garanzia di continuità europeista del Paese. Il suo programma è orientato verso l’Atlantico, piuttosto che verso il Reno.
Eanche per Fillon, come per Trump, la Russia di Putin (più che mai sovranista) dovrà ritornare ad essere un alleato indispensabile dei nuovi sovranisti occidentali. Sembra quasi che si stia ricostituendo, seppure a rovescio, una convergenza tra le potenze che sconfissero la Germania nella seconda guerra mondiale. Comunque sia, è indubbio che l’Europa integrata può contare sempre di meno su appoggi esterni e su supporti interni. L’appoggio esterno degli Stati Uniti si sta sfaldando, il supporto interno dell’asse franco-tedesco si è inceppato. Con il risultato che la Germania rischia di trovarsi isolata all’interno stesso dell’Ue, un isolamento che a sua volta potrebbe accrescere il sentimento nazionalista del Paese. E una Germania nazionalista è una minaccia per sé stessa, oltre che per gli altri.
La profondità e drammaticità di questi processi richiedono un grande sforzo politico (oltre che culturale) per ripensare il progetto di integrazione. Sia sul piano delle politiche che sul piano istituzionale. Cominciamo dalle politiche. Alla fine della riunione informale del Consiglio europeo dei capi di governo tenutasi a Bratislava il 16 settembre scorso, fu siglata una solenne Dichiarazione che impegnava i 27 Stati membri dell’Ue ad avviare un processo di riflessione sul futuro di quest’ultima da concludersi a Roma il 25 marzo prossimo, nella riunione dei capi di governo indetta per celebrare i 60 anni dei Trattati fondativi dell’attuale Ue. Di questa riflessione non si ha notizia. Ed è probabile che l’attuale governo italiano non abbia dedicato molto tempo a pensare al futuro dell’Ue, viste le urgenze che lo tallonano. Eppure, non solamente il 25 marzo è dietro l’angolo, ma la crisi europea è destinata a trascinare con sé anche il nostro Paese. In quella Dichiarazione, gli Stati membri si impegnarono ad avviare subito la produzione di basilari beni pubblici, sotto forme di politiche più integrate su cui vi era un ragionevole consenso (o almeno un consenso sulla loro necessità). Tre in particolare. Nella politica migratoria, per «assicurare il pieno controllo dei confini esterni dell’Ue e reintrodurre la libera circolazione prevista dagli accordi Schengen». Obiettivi da raggiungere attraverso la capacità di reazione immediata dell’agenzia di controllo delle frontiere, lo European Border and Coast Guard. Nella politica della sicurezza interna, per «rafforzare i sistemi di sicurezza interni ai Paesi nella lotta contro il terrorismo». E, nella politica della sicurezza esterna, per «rafforzare la cooperazione tra i sistemi nazionali di difesa». Infine, nella politica economica e sociale, per «rafforzare il mercato unico attraverso diverse strategie (come il “Digital Single Market, Capital Markets Union, Energy Union”)». Cosa ne è di questi impegni? È evidente che se l’Ue fosse in grado di produrre beni che migliorano la vita dei cittadini, l’attrattività degli antieuropeisti verrebbe ridimensionata.
Ma anche sul piano delle istituzioni, occorre dare segnali di intelligenza. La santa alleanza tra populismo e nazionalismo è stata resa possibile dalle deficienze istituzionali del sistema di governance dell’Ue oltre che dell’Eurozona. Quel sistema ha fatto lievitare il ruolo decisionale delle istituzioni intergovernative (e del Consiglio europeo in particolare) sia nelle politiche strategiche (come quelle sopra ricordate) che nelle politiche ordinarie (di regolazione del mercato unico). Prima la Francia e poi soprattutto la Germania e, con quest’ultima, i Paesi dell’Europa del Nord continuano a difendere il modello intergovernativo di prendere decisioni. Per due ragioni cruciali. Esso favorisce la fusione tra la politica nazionale e quella europea e garantisce il consenso tra i governi nazionali nella sua deliberazione interna. Entrambe le ragioni non reggono però l’evidenza dei fatti. Infatti, nelle condizioni di crisi con implicazioni redistributive, il consenso intergovernativo ha lasciato il posto ai rapporti di forza (degli Stati più forti e grandi nei confronti degli altri). E, a sua volta, la fusione tra i due livelli (nazionale e europeo) sta portando dall’integrazione alla disintegrazione. Se il Consiglio europeo non ha bilanciamenti esterni, e se le elezioni nazionali portassero al governo leader populisti, chi controlla le scelte del Consiglio europeo? Cosa succederebbe se gli Orban e i Di Maio diventassero la maggioranza di quell’organismo? Qualcuno, a Berlino, si pone questa domanda?
In un mondo che sta cambiando impetuosamente, stare fermi è un comportamento irresponsabile. Sappiamo che ci saranno importanti scadenze elettorali in importanti Paesi europei nel corso di quest’anno che incentivano l'immobilismo. Tuttavia, è possibile fare alcuni passi in avanti, sia sul piano dell’integrazione delle politiche che del ridisegno di alcune istituzioni. Peraltro, entro il 1° gennaio 2018 occorrerà decidere se portare o meno il Trattato del Fiscal Compact all’interno del Trattato di Lisbona. Se così è, può il governo Gentiloni prendere un’iniziativa importante per giungere al 25 marzo prossimo con una precisa road map che aiuti l’Ue ad uscire dal suo isolamento esterno e dal suo immobilismo interno?