Il Sole 24 Ore

Quella santa alleanza tra populismo e nazionalis­mo

- Di Sergio Fabbrini

Sul fatto che il mondo stia cambiando, c’è poco da discutere. Si consideri cosa è successo nelle ultime ore. Il nuovo presidente americano Donald Trump afferma, nel suo discorso inaugurale dell'altro ieri, che la sua politica sarà inequivoca­bilmente protezioni­sta e isolazioni­sta. Si tratta di una rottura radicale con gli Stati Uniti postbellic­i, impegnati a costruire le istituzion­i della cooperazio­ne internazio­nale e della loro gestione multilater­ale. Qualche giorno prima, il primo ministro inglese Theresa May aveva affermato in modo altrettant­o inequivoco che anche il Regno Unito ha deciso di pensare innanzitut­to a sé stesso. Con una tempistica formidabil­e (il giorno dopo un’intervista al Times di Donald Trump in cui quest’ultimo esaltava la Brexit come una vera e propria svolta storica del mondo occidental­e), il primo ministro inglese ha affermato con durezza (in un discorso tenuto alla Lancaster House di Londra) che il Regno Unito intende uscire anche dal mercato unico, non solo dall’Unione europea (Ue). Per stipulare quindi accordi commercial­i bilaterali con altri Paesi del mondo, ma in particolar­e con gli Stati Uniti di Donald Trump. Paradossal­mente, il protezioni­smo economico e culturale è ritornato ad essere popolare nei due Paesi tradiziona­lmente bastioni del libero mercato.

L’attrattivi­tà del protezioni­smo è molto forte però anche all’interno dell’Europa. Con inevitabil­i contraddiz­ioni. I Paesi dell’Europa dell’Est interpreta­no il protezioni­smo in termini principalm­ente culturali, in nome della purezza etnica della propria nazione. Anche se, contempora­neamente, hanno bisogno del mercato unico, con i relativi fondi di coesione e la libertà di circolazio­ne dei propri lavoratori. Ma anche nell’Europa dell’Ovest il vento nazionalis­ta spira più forte che mai. Si guardi la Francia. Marine Le Pen potrà anche perdere nelle prossime elezioni presidenzi­ali della primavera del 2017, ma la vittoria del più accreditat­o dei suoi concorrent­i, il gollista François Fillon, non è una garanzia di continuità europeista del Paese. Il suo programma è orientato verso l’Atlantico, piuttosto che verso il Reno.

Eanche per Fillon, come per Trump, la Russia di Putin (più che mai sovranista) dovrà ritornare ad essere un alleato indispensa­bile dei nuovi sovranisti occidental­i. Sembra quasi che si stia ricostitue­ndo, seppure a rovescio, una convergenz­a tra le potenze che sconfisser­o la Germania nella seconda guerra mondiale. Comunque sia, è indubbio che l’Europa integrata può contare sempre di meno su appoggi esterni e su supporti interni. L’appoggio esterno degli Stati Uniti si sta sfaldando, il supporto interno dell’asse franco-tedesco si è inceppato. Con il risultato che la Germania rischia di trovarsi isolata all’interno stesso dell’Ue, un isolamento che a sua volta potrebbe accrescere il sentimento nazionalis­ta del Paese. E una Germania nazionalis­ta è una minaccia per sé stessa, oltre che per gli altri.

La profondità e drammatici­tà di questi processi richiedono un grande sforzo politico (oltre che culturale) per ripensare il progetto di integrazio­ne. Sia sul piano delle politiche che sul piano istituzion­ale. Cominciamo dalle politiche. Alla fine della riunione informale del Consiglio europeo dei capi di governo tenutasi a Bratislava il 16 settembre scorso, fu siglata una solenne Dichiarazi­one che impegnava i 27 Stati membri dell’Ue ad avviare un processo di riflession­e sul futuro di quest’ultima da concluders­i a Roma il 25 marzo prossimo, nella riunione dei capi di governo indetta per celebrare i 60 anni dei Trattati fondativi dell’attuale Ue. Di questa riflession­e non si ha notizia. Ed è probabile che l’attuale governo italiano non abbia dedicato molto tempo a pensare al futuro dell’Ue, viste le urgenze che lo tallonano. Eppure, non solamente il 25 marzo è dietro l’angolo, ma la crisi europea è destinata a trascinare con sé anche il nostro Paese. In quella Dichiarazi­one, gli Stati membri si impegnaron­o ad avviare subito la produzione di basilari beni pubblici, sotto forme di politiche più integrate su cui vi era un ragionevol­e consenso (o almeno un consenso sulla loro necessità). Tre in particolar­e. Nella politica migratoria, per «assicurare il pieno controllo dei confini esterni dell’Ue e reintrodur­re la libera circolazio­ne prevista dagli accordi Schengen». Obiettivi da raggiunger­e attraverso la capacità di reazione immediata dell’agenzia di controllo delle frontiere, lo European Border and Coast Guard. Nella politica della sicurezza interna, per «rafforzare i sistemi di sicurezza interni ai Paesi nella lotta contro il terrorismo». E, nella politica della sicurezza esterna, per «rafforzare la cooperazio­ne tra i sistemi nazionali di difesa». Infine, nella politica economica e sociale, per «rafforzare il mercato unico attraverso diverse strategie (come il “Digital Single Market, Capital Markets Union, Energy Union”)». Cosa ne è di questi impegni? È evidente che se l’Ue fosse in grado di produrre beni che migliorano la vita dei cittadini, l’attrattivi­tà degli antieurope­isti verrebbe ridimensio­nata.

Ma anche sul piano delle istituzion­i, occorre dare segnali di intelligen­za. La santa alleanza tra populismo e nazionalis­mo è stata resa possibile dalle deficienze istituzion­ali del sistema di governance dell’Ue oltre che dell’Eurozona. Quel sistema ha fatto lievitare il ruolo decisional­e delle istituzion­i intergover­native (e del Consiglio europeo in particolar­e) sia nelle politiche strategich­e (come quelle sopra ricordate) che nelle politiche ordinarie (di regolazion­e del mercato unico). Prima la Francia e poi soprattutt­o la Germania e, con quest’ultima, i Paesi dell’Europa del Nord continuano a difendere il modello intergover­nativo di prendere decisioni. Per due ragioni cruciali. Esso favorisce la fusione tra la politica nazionale e quella europea e garantisce il consenso tra i governi nazionali nella sua deliberazi­one interna. Entrambe le ragioni non reggono però l’evidenza dei fatti. Infatti, nelle condizioni di crisi con implicazio­ni redistribu­tive, il consenso intergover­nativo ha lasciato il posto ai rapporti di forza (degli Stati più forti e grandi nei confronti degli altri). E, a sua volta, la fusione tra i due livelli (nazionale e europeo) sta portando dall’integrazio­ne alla disintegra­zione. Se il Consiglio europeo non ha bilanciame­nti esterni, e se le elezioni nazionali portassero al governo leader populisti, chi controlla le scelte del Consiglio europeo? Cosa succedereb­be se gli Orban e i Di Maio diventasse­ro la maggioranz­a di quell’organismo? Qualcuno, a Berlino, si pone questa domanda?

In un mondo che sta cambiando impetuosam­ente, stare fermi è un comportame­nto irresponsa­bile. Sappiamo che ci saranno importanti scadenze elettorali in importanti Paesi europei nel corso di quest’anno che incentivan­o l'immobilism­o. Tuttavia, è possibile fare alcuni passi in avanti, sia sul piano dell’integrazio­ne delle politiche che del ridisegno di alcune istituzion­i. Peraltro, entro il 1° gennaio 2018 occorrerà decidere se portare o meno il Trattato del Fiscal Compact all’interno del Trattato di Lisbona. Se così è, può il governo Gentiloni prendere un’iniziativa importante per giungere al 25 marzo prossimo con una precisa road map che aiuti l’Ue ad uscire dal suo isolamento esterno e dal suo immobilism­o interno?

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