Becattini, scopritore dell’Italia dei distretti
Pochi intellettuali italiani hanno fatto quello che ha fatto Giacomo Becattini per capire chi siamo, da dove veniamo e dove andiamo. L’economista, che dall’università di Firenze ha modificato l’idea del nostro sviluppo nazionale alla luce del canone teorico e della realtà storica dei distretti industriali, è scomparso ieri all’età di 90 anni.
Fra i decani della cultura italiana, è stato uno dei più riservati e più votati al silenzio delle biblioteche. Ma il suo pensiero ha inciso profondamente sugli studi economici e sulla consapevolezza delle specificità di lungo periodo del nostro Paese, in tutte le sue dimensioni: industriali e sociali, civili e culturali. La cifra della riflessione becattiniana è stata eminentemente marshalliana.
La formazione economica di Giacomo Becattini non avviene soltanto all’interno di un classico iter formale accademico in cui i temi dell’economia neoclassica si fondono con gli interessi per la teoria dell’impresa, ma va analizzata all’interno del contesto culturale novecentesco. Il confronto con il materialismo storico, che in Becattini come per molti altri intellettuali italiani avviene nel rapporto ora vicino ora lontano con il pensiero marxista e con la realtà politica della sinistra italiana e del Partito Comunista, appare una delle componenti che formano il contesto in cui si verifica il recepimento in Italia del messaggio di Alfred Marshall.
Becattini non solo si interessa del complesso rapporto che l’economista inglese ha avuto con il fabianesimo e il marxismo, ma utilizza alcuni elementi cruciali del paradigma marshalliano (in particolare il tema della dimensione sociale dell’agire economico) per comprendere a fondo i meccanismi di cooperazione e di integrazione che caratterizzano le istituzioni dell’economia. Becattini lo fa secondo una logica comunitaria che, se da un lato nega alla radice il monoteismo della concorrenza, dall’altro recepisce appunto il dualismo dialettico cooperazione-competizione.
Lo sviluppo di una teoria (volutamente aperta e non chiusa) dei distretti, che ha il suo primo punto fermo nel volume del 1973 «Lo sviluppo economico della Toscana, con particolare riferimento all’industrializzazione leggera», è complesso e accidentato: parte, come ha spesso raccontato lo stesso Becattini, da una scarsa utilità degli strumenti delle culture economiche tradizionali nell’interpretare la crescita toscana nel 1963 (uno studio commissionato dall’Unione Province Toscane), passa prima attraverso il concetto di “campagna urbanizzata”, recupera fra 1969 e 1975 i concetti marshalliani di economie esterne e di at- mosfera industriale e viene formalizzata in maniera definitiva nel 1979, anno in cui uno dei maestri del Novecento come Fernand Braudel, chiamato a dirigere l’opera a più voci «Prato. Storia di una città», chiede a Becattini di curare il volume sul distretto industriale pratese. Il tutto con, intorno, l’ostilità della cultura accademica neoclassica e marxista.
Sì, perché la lunga attività di studioso e di edificatore di una scuola incentrata sull’Università di Firenze – scandita da numerose pubblicazioni fra cui «Mercato e forze locali» (Il Mulino, 1987) e «Distretti industriali e made in Italy» (Bollati Boringhieri, 1998), «Il distretto industriale. Un nuovo modo di interpretare il cambiamento economico» (Rosenberg & Sellier, 2000) e «Il bruco e la farfalla. Prato: una storia esemplare dell’Italia dei distretti» (Le Monnier, 2000) – è stata spesso osservata con distacco e quasi con offensiva ironia dal mainstream accademico, in particolare quello orientato a una visione matematizzante e iperformalistica dell’analisi economica.
Il punto vero è che con Giacomo Becattini la realtà ha fatto irruzione nell’analisi economica. I distretti, le piccole imprese, la rivisita-