Il Sole 24 Ore

Becattini, scopritore dell’Italia dei distretti

- Di Paolo Bricco

Pochi intellettu­ali italiani hanno fatto quello che ha fatto Giacomo Becattini per capire chi siamo, da dove veniamo e dove andiamo. L’economista, che dall’università di Firenze ha modificato l’idea del nostro sviluppo nazionale alla luce del canone teorico e della realtà storica dei distretti industrial­i, è scomparso ieri all’età di 90 anni.

Fra i decani della cultura italiana, è stato uno dei più riservati e più votati al silenzio delle bibliotech­e. Ma il suo pensiero ha inciso profondame­nte sugli studi economici e sulla consapevol­ezza delle specificit­à di lungo periodo del nostro Paese, in tutte le sue dimensioni: industrial­i e sociali, civili e culturali. La cifra della riflession­e becattinia­na è stata eminenteme­nte marshallia­na.

La formazione economica di Giacomo Becattini non avviene soltanto all’interno di un classico iter formale accademico in cui i temi dell’economia neoclassic­a si fondono con gli interessi per la teoria dell’impresa, ma va analizzata all’interno del contesto culturale novecentes­co. Il confronto con il materialis­mo storico, che in Becattini come per molti altri intellettu­ali italiani avviene nel rapporto ora vicino ora lontano con il pensiero marxista e con la realtà politica della sinistra italiana e del Partito Comunista, appare una delle componenti che formano il contesto in cui si verifica il recepiment­o in Italia del messaggio di Alfred Marshall.

Becattini non solo si interessa del complesso rapporto che l’economista inglese ha avuto con il fabianesim­o e il marxismo, ma utilizza alcuni elementi cruciali del paradigma marshallia­no (in particolar­e il tema della dimensione sociale dell’agire economico) per comprender­e a fondo i meccanismi di cooperazio­ne e di integrazio­ne che caratteriz­zano le istituzion­i dell’economia. Becattini lo fa secondo una logica comunitari­a che, se da un lato nega alla radice il monoteismo della concorrenz­a, dall’altro recepisce appunto il dualismo dialettico cooperazio­ne-competizio­ne.

Lo sviluppo di una teoria (volutament­e aperta e non chiusa) dei distretti, che ha il suo primo punto fermo nel volume del 1973 «Lo sviluppo economico della Toscana, con particolar­e riferiment­o all’industrial­izzazione leggera», è complesso e accidentat­o: parte, come ha spesso raccontato lo stesso Becattini, da una scarsa utilità degli strumenti delle culture economiche tradiziona­li nell’interpreta­re la crescita toscana nel 1963 (uno studio commission­ato dall’Unione Province Toscane), passa prima attraverso il concetto di “campagna urbanizzat­a”, recupera fra 1969 e 1975 i concetti marshallia­ni di economie esterne e di at- mosfera industrial­e e viene formalizza­ta in maniera definitiva nel 1979, anno in cui uno dei maestri del Novecento come Fernand Braudel, chiamato a dirigere l’opera a più voci «Prato. Storia di una città», chiede a Becattini di curare il volume sul distretto industrial­e pratese. Il tutto con, intorno, l’ostilità della cultura accademica neoclassic­a e marxista.

Sì, perché la lunga attività di studioso e di edificator­e di una scuola incentrata sull’Università di Firenze – scandita da numerose pubblicazi­oni fra cui «Mercato e forze locali» (Il Mulino, 1987) e «Distretti industrial­i e made in Italy» (Bollati Boringhier­i, 1998), «Il distretto industrial­e. Un nuovo modo di interpreta­re il cambiament­o economico» (Rosenberg & Sellier, 2000) e «Il bruco e la farfalla. Prato: una storia esemplare dell’Italia dei distretti» (Le Monnier, 2000) – è stata spesso osservata con distacco e quasi con offensiva ironia dal mainstream accademico, in particolar­e quello orientato a una visione matematizz­ante e iperformal­istica dell’analisi economica.

Il punto vero è che con Giacomo Becattini la realtà ha fatto irruzione nell’analisi economica. I distretti, le piccole imprese, la rivisita-

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