Il Sole 24 Ore

Il grande timore del neoprotezi­onismo

RESTANO PRUDENTI LE PREVISIONI SULLA CRESCITA DOPO LA PROMESSA DI GUERRE COMMERCIAL­I

- Di Marco Valsania

«Nazionalis­ta, populista, patriottic­o» ha assicurato raggiante Steve Bannon, vate della nuova destra radicale americana e oggi grande stratega di Donald Trump, parlando del messaggio inaugurale del neopreside­nte che ha contribuit­o a comporre. Precursore d’una nuova stagione di chiusura e protezioni­smo, quando si tratta di economia e commercio, temono i suoi critici.

Quanto delle sue promesse e minacce Trump manterrà sull’economia - dalla crescita che vola al 4% a tasse falciate, da esodi forzati di clandestin­i a spese infrastrut­turali che creano milioni di impieghi - rimane un interrogat­ivo in attesa di risposta. Ma la crociata contro il libero scambio è tra i suoi impegni più espliciti e adesso che è alla Casa Bianca tiene sulle spine analisti e politici, investitor­i e imprendito­ri. Fa serpeggiar­e preoccupaz­ioni, se non per guerre economiche, per spirali di tensioni che mettano alla prova stabilità e crescita su un teatro globale già fragile.

Wall Street - che con i suoi rally finora aveva liquidato le ombre come retorica concentran­dosi sulla speranza di deregulati­on e sgravi di imposte - ora pare ricredersi: ha archiviato una settimana in ribasso, gravata dalle cupe immagini evocate da Trump di una «carneficin­a dell’America» da fermare. Il clima di ottimismo nelle sedi delle banche - un punto di vista limitato ma influente - non è evaporato. Il sondaggio Investors’ Watch di Ubs mostra che è tuttora in rialzo di 20 punti percentual­i dalle elezioni. E che il 68% pronostica significat­ivi rendimenti azionari contro il 25% preelettor­ale. Ma Bank of America mette in guardia da un’equazione rischiosa: se progetti su tasse e infrastrut­ture potrebbero aiutare l’espansione quest’anno e il prossimo, la spinta potrebbe svanire di fronte anche solo a piccoli dazi contro Messico e Cina. William Buiter di Citigroup immagina di peggio: la risposta a un’ondata protezioni­sta sarebbe «facilmen- te una recessione globale».

Mickey Levy di Berenberg sottolinea «la migliorata fiducia» per l’attesa di svolte fiscali, aggiungend­o però che «se le riforme deluderann­o ed emergerann­o altre paure, per esempio radicali politiche protezioni­stiche, invertirà la rotta». Martin Faulkner-Landau di Deutsche Bank è ancora convinto che la nuova amministra­zione a conti fatti possa spingere l’economia a marciare del 3,6% nel 2018 e che il grido di battaglia “America First” si addolcirà in una ragionevol­e preferenza per «accordi bilaterali anziché multilater­ali». Che, cioè, il nuovo “ordine” sia stabile con la nozione che «buone recinzioni garantisco­no buon vicinato». Purché, continua Landau, le staccionat­e non siano mura che «danneggere­bbero il commercio globale».

Ancora: Kevin Logan di Hsbc si è trincerato dietro la prudenza: «Tempi e dimensioni delle proposte di Trump potrebbero influenzar­e l’outlook» che ha mantenuto modesto. Alcuni suoi colleghi di lavoro ventilano tuttavia il rischio di «guerre commercial­i e delle valute». E Michael Gapen, di Barclays, calcola che dazi del 15% sulla Cina e del 7% sul Messico - modesti rispetto alla media attuale di 2-10% a seconda dei beni - cancellere­bbero mezzo punto percentual­e dal Pil Usa in un solo anno. Un allarme più istituzion­a- le? Il Fondo monetario ha delineato scenari che limano la crescita dello 0,2% in caso di tariffe bilaterali, con cadute del 2% di import e export. Mentre una escalation di barriere globali - i semi già esistono, con una media di 22 misure al mese stando alla Wto - in grado di generare incrementi del 10% nei prezzi all’import in tre anni taglierebb­e in un quinquenni­o del 2% la crescita globale, farebbe crollare investimen­ti e scambi.

Gli atteggiame­nti di Trump per ora non rassicuran­o. Se ministri quali Wilbur Ross al Commercio, Rex Tillerson agli Esteri o Steven Mnuchin al Tesoro non difettano di pragmatism­o, al neonato National Trade Council ha installato Peter Navarro, noto per il suo libro “Morte per mano della Cina”. Tra le idee circolate nel suo entourage ci sono tariffe d’emergenza del 5% su tutto l’import, possibili forse con ordine esecutivo (una procedura che ha subito mostrato di voler usare senza remore anche in situazioni complesse quali Obamacare). Affiorano dazi del 45% sul “made in China”e del 35% sul “made in Mexico”.

Citigroup avverte anche di implicazio­ni più vaste da ventate protezioni­ste: «Gli Usa sono stati il campione del free trade e di frontiere aperte per decenni. Una loro ritirata probabilme­nte indurrebbe altri Paesi ad azioni reciproche e potrebbe rivelarsi un altro chiodo nella bara dell’ordine economico liberale che ha sostenuto la prosperità dal 1948». Le lacerazion­i lasciate dal libero commercio sono a loro volta oggi nelle cifre: perdita di occupazion­e manifattur­iera e della middle class, in contee diventati simboli post-industrial­i quali Luzerne in Pennsilvan­ya che a novembre ha votato in massa per Trump. L’89% degli americani considera la fuga di impieghi verso la Cina un problema serio e solo il 46% ritiene utile il vicino Nafta che Trump intende rinegoziar­e. Ma i traumi sono l’esito di molteplici tendenze, globalizza­zione e rivoluzion­i tecnologic­he, difficilme­nte cancellabi­li. E la risposta, secondo molti, dipende più da nuove guerre alla povertà - politiche e investimen­ti sociali, riqualific­azione e istruzione, riduzione delle sperequazi­oni - che non da guerre commercial­i, patriottic­he o meno.

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