Robot senza senso comu ne
Riconoscere le parole non significa comprendere i nessi con pensiero e realtà
I robot ci ruberanno il lavoro, si dice collocando le macchine intelligenti all’apice delle non poche ansie dell’epoca contemporanea. Non solo stanno già rimpiazzando operai, magazzinieri e autisti, ma intenderanno anche la nostra lingua. Parleremo con loro quando chiameremo un call center, tratteremo con loro le nostre pratiche. I robot sono davvero prossimi alla vetta della nostra umanità, cioè alla facoltà del linguaggio?
Lo storytelling tecnologico ci ripete che, se oggi le macchine riescono un po’ in qualcosa, allora domani, con maggior potenza, riusciranno del tutto in quella cosa. L’argomento funziona se tra le cose c’è un chiaro rapporto quantitativo. Ma tra riconoscimento delle parole e comprensione delle frasi c’è un salto di qualità che si chiama semantica. La maggiore capacità di calcolo non si traduce in maggiore capacità di comprensione finché quest’ultima non è ricondotta, appunto, a un calcolo.
Su come tale calcolo possa essere realizzato, tuttavia, nessun matematico del linguaggio è oggi in grado di fornire risposte definitive. Per ora si procede caso per caso, con una varietà di tecniche e approcci diversi, mirando a obiettivi concreti, utili ma limitati, come quello di saper rispondere a speci- fiche interrogazioni o eseguire semplici comandi.
Nulla di ciò che oggi ci appare sotto le sembianze della comprensione automatica, per quanto possa funzionare bene per molte profittevoli applicazioni, può ragionevolmente proporsi come modello, anche approssimativo, della facoltà umana del linguaggio. Tutti i sistemi attuali, dagli assistenti personali ai sistemi di traduzione, dagli analizzatori di “sentimenti” agli estrattori di conoscenze, funzionano ancora come quel signore che, nel celebre esempio di Searle, riceveva domande in cinese e, seguendo istruzioni e compulsando indici, restituiva risposte in cinese, pur non conoscendo affatto il cinese.
Eppure, sul fronte dell’analisi morfologica e sintattica, grazie all’apprendimento automatico, le macchine hanno fatto notevoli progressi: oggi, sulla grammatica, hanno un’accuratezza paragonabile a quella dei professori. Ma, nella ricetta per comprendere il significato di una frase, morfologia e sintassi sono solo ingredienti, e forse neanche essenziali. Da una parte, infatti, siamo perfettamente in grado di capire frasi sgrammaticate, dall’altra possiamo fraintendere frasi molto ben fatte. Il famoso esempio di Chomsky - «Idee verdi incolori dormono furiosamente», ci dice che la sintassi non guarda in faccia a nessun significato, ma d’altronde la semantica non se ne fa un cruccio.
Benché siano ottimi grammatici, quando si tratta di capire veramente ciò di cui si parla i robot arrancano. Gli analizzatori ( parser) che mirano a produrre non grafi sintattici ma sommarie rappresentazioni del significato vanno occasionalmente a segno. Ma il tipo di dati che serve per istruirli non si tro- va in natura, come le immagini o i testi grezzi di cui abbonda il web, bensì richiede un intenso lavoro di elaborazione umana, sicché le tecniche di “apprendimento profondo” ( deep learning), che rendono oggi l’intelligenza artificiale così potente, non possono giocare un ruolo decisivo.
La ragione di tutto questo risiede nel fatto che il segno linguistico, che associa parola, pensiero e realtà, prende corpo dentro i processi di comunicazione di agenti in carne e ossa, cioè noi umani. Di questi processi le macchine possono osservare le manifestazioni testuali e foniche, all’interno delle quali possono computare meglio di noi occorrenze, correlazioni, distribuzioni, combinazioni. Ma ciò che i testi significano si affaccia in questi calcoli solo di riflesso, perché i segni sono relazioni che legano i testi a qualcosa che nei testi non c’è.
Diceva Tullio De Mauro che le parole sono tangenti alle cose: le toccano cioè in certi punti, ma con leggerezza. Trovare le coordinate di questi punti non è una questione di forza computazionale o di acume algoritmico, perché tali coordinate si stabiliscono, creativamente, nelle società. Diamo ai robot la nostra corporeità, le paure e i desideri che vi sono annessi, immergiamoli in situazioni sociali complesse dove hanno il problema di sopravvivere ma godono di ampia libertà, e acquisteranno facoltà linguistiche simili alle nostre, comprese quelle di fraintendere e di mentire. Fino a quel giorno quello dei robot sarà solo un simulacro del nostro linguaggio, e la loro intelligenza sarà solo quella che gli attribuiamo noi.