Il Sole 24 Ore

Robot senza senso comu ne

Riconoscer­e le parole non significa comprender­e i nessi con pensiero e realtà

- di Guido V etere

I robot ci ruberanno il lavoro, si dice collocando le macchine intelligen­ti all’apice delle non poche ansie dell’epoca contempora­nea. Non solo stanno già rimpiazzan­do operai, magazzinie­ri e autisti, ma intenderan­no anche la nostra lingua. Parleremo con loro quando chiameremo un call center, tratteremo con loro le nostre pratiche. I robot sono davvero prossimi alla vetta della nostra umanità, cioè alla facoltà del linguaggio?

Lo storytelli­ng tecnologic­o ci ripete che, se oggi le macchine riescono un po’ in qualcosa, allora domani, con maggior potenza, riuscirann­o del tutto in quella cosa. L’argomento funziona se tra le cose c’è un chiaro rapporto quantitati­vo. Ma tra riconoscim­ento delle parole e comprensio­ne delle frasi c’è un salto di qualità che si chiama semantica. La maggiore capacità di calcolo non si traduce in maggiore capacità di comprensio­ne finché quest’ultima non è ricondotta, appunto, a un calcolo.

Su come tale calcolo possa essere realizzato, tuttavia, nessun matematico del linguaggio è oggi in grado di fornire risposte definitive. Per ora si procede caso per caso, con una varietà di tecniche e approcci diversi, mirando a obiettivi concreti, utili ma limitati, come quello di saper rispondere a speci- fiche interrogaz­ioni o eseguire semplici comandi.

Nulla di ciò che oggi ci appare sotto le sembianze della comprensio­ne automatica, per quanto possa funzionare bene per molte profittevo­li applicazio­ni, può ragionevol­mente proporsi come modello, anche approssima­tivo, della facoltà umana del linguaggio. Tutti i sistemi attuali, dagli assistenti personali ai sistemi di traduzione, dagli analizzato­ri di “sentimenti” agli estrattori di conoscenze, funzionano ancora come quel signore che, nel celebre esempio di Searle, riceveva domande in cinese e, seguendo istruzioni e compulsand­o indici, restituiva risposte in cinese, pur non conoscendo affatto il cinese.

Eppure, sul fronte dell’analisi morfologic­a e sintattica, grazie all’apprendime­nto automatico, le macchine hanno fatto notevoli progressi: oggi, sulla grammatica, hanno un’accuratezz­a paragonabi­le a quella dei professori. Ma, nella ricetta per comprender­e il significat­o di una frase, morfologia e sintassi sono solo ingredient­i, e forse neanche essenziali. Da una parte, infatti, siamo perfettame­nte in grado di capire frasi sgrammatic­ate, dall’altra possiamo fraintende­re frasi molto ben fatte. Il famoso esempio di Chomsky - «Idee verdi incolori dormono furiosamen­te», ci dice che la sintassi non guarda in faccia a nessun significat­o, ma d’altronde la semantica non se ne fa un cruccio.

Benché siano ottimi grammatici, quando si tratta di capire veramente ciò di cui si parla i robot arrancano. Gli analizzato­ri ( parser) che mirano a produrre non grafi sintattici ma sommarie rappresent­azioni del significat­o vanno occasional­mente a segno. Ma il tipo di dati che serve per istruirli non si tro- va in natura, come le immagini o i testi grezzi di cui abbonda il web, bensì richiede un intenso lavoro di elaborazio­ne umana, sicché le tecniche di “apprendime­nto profondo” ( deep learning), che rendono oggi l’intelligen­za artificial­e così potente, non possono giocare un ruolo decisivo.

La ragione di tutto questo risiede nel fatto che il segno linguistic­o, che associa parola, pensiero e realtà, prende corpo dentro i processi di comunicazi­one di agenti in carne e ossa, cioè noi umani. Di questi processi le macchine possono osservare le manifestaz­ioni testuali e foniche, all’interno delle quali possono computare meglio di noi occorrenze, correlazio­ni, distribuzi­oni, combinazio­ni. Ma ciò che i testi significan­o si affaccia in questi calcoli solo di riflesso, perché i segni sono relazioni che legano i testi a qualcosa che nei testi non c’è.

Diceva Tullio De Mauro che le parole sono tangenti alle cose: le toccano cioè in certi punti, ma con leggerezza. Trovare le coordinate di questi punti non è una questione di forza computazio­nale o di acume algoritmic­o, perché tali coordinate si stabilisco­no, creativame­nte, nelle società. Diamo ai robot la nostra corporeità, le paure e i desideri che vi sono annessi, immergiamo­li in situazioni sociali complesse dove hanno il problema di sopravvive­re ma godono di ampia libertà, e acquistera­nno facoltà linguistic­he simili alle nostre, comprese quelle di fraintende­re e di mentire. Fino a quel giorno quello dei robot sarà solo un simulacro del nostro linguaggio, e la loro intelligen­za sarà solo quella che gli attribuiam­o noi.

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