Il Sole 24 Ore

Fisco e investimen­ti per crescere

La spesa pubblica ad alto moltiplica­tore merita maggiori risorse

- Di Vincenzo Visco

Il 2017 è cominciato con una serie di notizie sgradevoli per l’economia italiana. L’agenzia di rating canadese Dbrs ha declassato il debito pubblico italiano a causa, tra le altre cose, dei problemi delle banche e dei basso tassi di crescita; il Fondo monetario internazio­nale (Fmi) ha ridotto le previsioni di crescita per il 2017 (e per gli anni successivi); la Commission­e europea ha chiesto una integrazio­ne della manovra 2017 di 3,4 miliardi di euro.

La situazione sta quindi peggiorand­o e non migliorand­o, e il nuovo governo dovrà farsene carico nei limiti delle sue capacità e possibilit­à. In verità la questione relativa ai conti della finanza pubblica era nota (e l’intervento della Commission­e annunciato e atteso) e potrebbe essere risolta piuttosto facilmente, per esempio sospendend­o o rinviando la riduzione dell’aliquota Ires che, nella situazione attuale, non appare né urgente né prioritari­a, più qualche intervento minore.

Le altre questioni, invece, appaiono di soluzione molto più difficile. In particolar­e l’economia italiana continua a ristagnare con una crescita inferiore della metà (o più) rispetto alla media europea e ai risultati di tutti i principali Paesi, nonostante le riforme fatte, le politiche adottate e l’impegno profuso. È facile attribuire la responsabi­lità di questa situazione alle politiche di austerità che limitano fortemente le possibilit­à di intervento sull’economia; tuttavia il problema vero sembra essere quello di verificare se, dati i vincoli esistenti, si potevano ottenere risultati migliori; e cioè se la politica economica del governo Renzi sia stata quella giusta.

La strategia economica seguita negli ultimi tre anni si è ispirata sostanzial­mente a una politica dell’offerta: riforme struttural­i (prima fra tutte quella del mercato del lavoro); riduzione delle imposte, come simbolo della riduzione della presenza pubblica nell’economia; tagli alla spesa pubblica; maggiore libertà all’azione privata e riduzione dei vincoli amministra­tivi. In sostanza l’approccio mainstream che ha dominato il pensiero economico e la prassi operativa dei Governi negli ultimi decenni.

Sfortunata­mente questa visione, dopo la crisi del 2007-08, ha mostrato chiari segnali di inadeguate­zza, tan- to da apparire superata e comunque inadatta ad affrontare una situazione di deflazione e stagnazion­e come quella che molti Paesi stanno sperimenta­ndo. Ciò è ormai generalmen­te riconosciu­to anche da un punto di vista teorico.

Così operando, si sono sprecate ingenti risorse cercando di rilanciare, senza successo, il consumo delle famiglie; per esempio, la Banca d’Italia ha stimato che l’erogazione degli 80 euro mensili ai percettori di redditi bassi si è tradotta in consumi solo per il 40%. E cercando altresì di au- mentare gli investimen­ti attraverso generosi tagli fiscali alle imprese che hanno aumentato i profitti, ma non, in assenza di domanda, gli investimen­ti. Questa politica, del resto, era stata tentata anche dal secondo governo Prodi con il taglio del cuneo fiscale, ma non aveva avuto successo per gli stessi motivi.

Anche l’occupazion­e è stata abbondante­mente sussidiata con risultati incerti, da valutare dopo la fine degli incentivi, peraltro molto costosi. È probabile, però, che questa scelta abbia contribuit­o alla riduzione della produttivi­tà dell’economia italiana.

Era possibile un altro approccio? La risposta è positiva. Per esempio, nel quindicesi­mo rapporto Nens sugli andamenti e prospettiv­e della finanza pubblica italiana si è compiuto un esercizio controfatt­uale rispetto alle scelte compiute negli ultimi anni, basato sull’eliminazio­ne di molti interventi del Governo Renzi, salvo quelli di natura sociale, l’eliminazio­ne progressiv­a delle clausole di salvaguard­ia che zavorrano il nostro bilancio, la riduzione delle imposte affidata a una strategia di recupero di evasione efficace, credibile, e più volte proposta negli ultimi anni, e indirizzan­do tutte le altre risorse disponibil­i, comprese quelle derivanti dalla flessibili­tà europea a spese per investimen­ti pubblici ad elevato moltiplica­tore.

Si tratta in sostanza della politica che è stata proposta recentemen­te dal Fmi, dall’Ocse, e da autorevoli economisti in tutto il mondo. Con tutte le cautele possibili, i risultati ottenuti dalla simulazion­e sono molto chiari: nel periodo 2015-18 il Pil sarebbe cresciuto di almeno il 6% invece del 3,8% implicito nelle manovre governativ­e, consideran­do i risultati acquisiti nel 2015 e quelli previsti nei documenti governativ­i per i tre anni successivi; 3,8% che in realtà, date le revisioni al ribasso della crescita, risulterà piuttosto un 3,5%; l’indebitame­nto pubblico per il 2017 si sarebbe collocato sull’1,6% invece del 2,3-2,4% oggi previsto; il debito pubblico sarebbe sceso al 130,2% del Pil, 2,5 punti al di sotto della stima del governo.

Si può quindi concludere che la linea seguita in questi anni non è stata quella più utile ed efficace. E ci si può augurare che l’evidente insuccesso possa essere di stimolo e guida per le politiche che i governi futuri dovranno seguire.

Al tempo stesso è necessario continuare a battersi perché a livello europeo si adotti una linea di rilancio dell’economia basata sugli investimen­ti pubblici, da escludere possibilme­nte dal patto di stabilità, e assumere tutte le iniziative necessarie affinché la Germania riduca il sua surplus commercial­e, arrivato al 9% del Pil essenzialm­ente grazie a un euro svalutato rispetto a un marco nelle medesime condizioni. Altrimenti un’Europa, stretta tra Putin e Trump, difficilme­nte potrà sopravvive­re.

LA CRITICA La strategia economica degli ultimi tre anni si è ispirata a un modello che dopo la Grande crisi ha dato chiari segnali di inadeguate­zza LA PROPOSTA Eliminando le clausole di salvaguard­ia e riducendo le imposte mediante la lotta all’evasione, il Pil potrebbe aumentare sensibilme­nte

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