Il Sole 24 Ore

Un’idea del lavoro lontana dall’Europa

- Di Franco Debenedett­i

Se solo avessero lasciato la parola 15 invece di sostituirl­a con il 5 ripescato in un’altra parte della norma, il referendum sarebbe stato probabilme­nte dichiarato ammissibil­e, quasi con certezza si sarebbe superato il quorum ed è possibile che i Sì sarebbero stati in maggioranz­a. Come è noto, il vecchio art 18 dello Statuto dei lavoratori del 1970 imponeva che il lavoratore di un’azienda con più di 15 dipendenti venisse reintegrat­o nel suo posto di lavoro, ove il giudice non ne ravvisasse il giustifica­to motivo. Il referendum promosso dalla Cgil voleva non solo ripristina­re l’art 18, eliminato dal Jobs act per i nuovi assunti, nella sua formulazio­ne più arcigna, ma estenderlo a tutte le aziende con più di 5 dipendenti. La Corte ha ritenuto che si sarebbe trattato di un referendum propositiv­o; e non l’ha ammesso. Ma le indiscrezi­oni parlavano di una Corte divisa e giustifica­vano il nostro diffuso pessimismo. I proponenti il referendum non potevano ignorare questo rischio. Perché hanno voluto correrlo? Qual era l’obiettivo tanto importante da giustifica­re l’azzardo?

La Cgil ha redatto una “Carta dei diritti universali del lavoro”, che con oltre 30mila parole in 97 articoli, tecnicamen­te perfetti, chiari, concisi e facilmente leggibili, ridefinisc­e l’intero diritto del lavoro e sindacale. Quando, sette anni fa, Pietro Ichino aveva proposto il suo codice semplifica­to, che razionaliz­zava le norme nel tempo accumulate­si, la Cgil aveva tuonato che «semplifica­zione significa smantellam­ento dei diritti». Poi ha cambiato idea: con un lavoro opposto nei contenuti ma analogo nell’intento semplifica­tivo, ha proposto anch’essa il proprio codice semplifica­to, che avrebbe dovuto essere il punto di arrivo di un complesso disegno politico. Gettarne le basi con il voto popolare sui tre pilastri sottoposti a referendum – l’estensione del diritto al reintegro a tutte le imprese con più di 5 lavoratori, l’abolizione dei voucher e il ritorno alla disciplina originaria sugli appalti – e farne la piattaform­a di lancio per l’approvazio­ne di una legge di iniziativa popolare che recepisse la Carta dei diritti universali versione Cgil. Una rigida disciplina del part-time, del mutamento di mansioni, del contratto a termine, estesa a tutte le imprese indipenden­temente dalle dimensioni, addirittur­a alle collaboraz­ioni continuati­ve: una vera e propria scorpaccia­ta di protezioni aggiuntive per i lavoratori che hanno la fortuna di trovarsi dentro la cittadella fortificat­a del lavoro protetto. La “variabile indipenden­te” del sistema, che un tempo la Cgil sosteneva essere la retribuzio­ne, oggi in questa ottica è la rigidità delle protezioni.

Il referendum per l’art.18 non si farà, quello per i voucher potrebbe essere forse disattivat­o da un intervento legislativ­o, e in ogni caso potrebbe non raggiunger­e il quorum. Ma restano, e non sono da poco, i guasti che l’iniziativa ha prodotto per la formazione di una corretta opinione pubblica in tema di diritti del lavoro. La campagna di delegittim­azione e di denigrazio­ne dello strumento del voucher è stata velenosa. Ci saranno stati, come sempre è possibile, degli abusi, e questi vanno impediti e sanzionati: ma è la stessa dimensione del fenomeno a dimostrare la fisiologic­a funzionali­tà dello strumento. Se fossero spesi per rapporti a tempo pieno, 120 milioni di voucher, corrispond­erebbero a circa 60mila posti di lavoro; moltiplich­iamoli pure per 20, per tener conto del fatto che si tratta quasi sempre di lavoretti occasional­i: arriviamo a 1,2 milioni; è comunque una frazione ragionevol­e, in relazione a una forza-lavoro di 23 milioni. È nettamente inferiore rispetto alla percentual­e che si registra in Germania per i cosiddetti minijob.

Un milione sono le firme raccolte dalla Cgil a sostegno di ciascuno dei tre quesiti referendar­i. Ma ben più della capacità di mobilitazi­one esterna, impression­a il funzioname­nto della dialettica interna: nessuna voce si è alzata nel sindacato per mettere in discussion­e il progetto politico. Non era così ai tempi di Luciano Lama, e del controvers­o referendum sulla scala mobile, e neppure ai tempi di Sergio Cofferati, il quale nel 2003 diede l’indicazion­e di astenersi dal voto per far fallire il referendum promosso da Rifondazio­ne Comunista, mirato all’estensione dell’articolo 18 alle imprese sotto i 16 dipendenti.

Così noi ci troviamo da un lato il maggior sindacato nazionale che approva compatto un progetto che ingessereb­be le strutture produttive, rendendoci simili all’Albania di Enver Hoxha, e, quanto ai rapporti di lavoro, ci metterebbe in controtend­enza rispetto all’Europa. Dall’altro con il partito in testa nei sondaggi che, entrato e uscito, come nella famosa pochade di Feydeau, dall’“albergo del libero scambio”, riconferma il proposito di un referendum per uscire dall’Europa.

Forse l’abbiamo detto troppo presto che l’abbiamo scampata bella.

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