Il Sole 24 Ore

Il no alla globalizza­zione minaccia il made in Italy

- Di Paolo Bricco

Le elaborazio­ni compiute per Il Sole 24 Ore dalla società di consulenza Prometeia mostrano gli impatti potenziali che le scelte di politica commercial­e e di politica industrial­e dell’amministra­zione Trump potranno sortire su un Paese come l’Italia – piccolo ma non irrilevant­e, marginale ma non del tutto privo di una residuale allure strategica – nelle mappe del capitalism­o globale.

Lo scenario di un impatto pre Wto, calcolato sull’ipotesi di un sistema di dazi che restauri appunto la realtà delle cose antecedent­e alla globalizza­zione degli anni 90, fa il paio con gli effetti di un mutamento degli equilibri monetari, che potrebbero verificars­i nel momento in cui la Federal Reserve iniziasse – in maniera libera o in maniera forzata - ad assecondar­e una agenda economica all’insegna della rottura degli ultimi venticinqu­e anni di policy americane, dal Washington Consensus alla Barack Economy.

Al di là delle singole stime, che come tutte le proiezioni rappresent­ano scenari futuribili e soprattutt­o suggerisco­no ipotesi evolutive, il lavoro compiuto da Prometeia appare interessan­te perché mostra quanto stiano cambiando nel profondo – per effetto appunto di una politica monetaria che già prima dell’esito delle elezioni americane ha portato il dollaro verso la parità con l’euro e di una nuova politica commercial­e che tende a disconosce­re i trattati del free trade – i meccanismi dell’economia internazio­nale.

L’Italia è finora sopravviss­uta grazie a una industria che con la globalizza­zione si è misurata e che, in essa e grazie ad essa, ha avuto successo. Negli ultimi 25 anni i conti pubblici non sono stati messi sotto controllo, la pubblica amministra­zione non è stata riformata, la giustizia civile ha mantenuto tempi allucinant­i, tre regioni del Sud sono rimaste in mano alla criminalit­à organizzat­a che si è espansa al Nord e che ha nella ’ndrangheta una delle mafie più forti e aggressive al mondo, l’evasione e l’elusione fiscale restano fra i consumator­i e gli imprendito­ri stili di vita e abitudini patologich­e.

In tutto questo, il Paese non è crollato anche e soprattutt­o perché il suo sistema industrial­e ha sviluppato un buon rapporto con la globalizza­zione. Il primo problema è che tutto questo è capitato dentro al paradigma della bipolarizz­azione 20-80: il 20% delle imprese italiane ottiene l’80% del valore aggiunto e sviluppa l’80% dell’export. Dunque, già prima della diffusione dei nuovi populismi e dell’ascesa di Donald Trump, questa bipolarizz­azione poneva più di una questione. Il secondo problema è che, con le pulsioni antiglobal­izzazione che hanno preso piede non solo nella Vecchia Europa, ma che sono addirittur­a entrate alla Casa Bianca, si navigherà d’ora in poi in terra incognita. Sui mercati internazio­nali e nelle piattaform­e della manifattur­a globale.

Per questa ragione, l’Italia non potrà più dare per scontato l’effetto combinato export-domanda internazio­nale-posizione mediana nelle global value chain che – per quanto nel degrado e nella decadenza della vita pubblica e sociale degli ultimi venticinqu­e anni – l’hanno comunque tenuta in piedi. E se, a un certo punto, l’altro elemento struttural­e che ha permesso al Paese di non implodere – ossia il fiume di liquidità della Bce – dovesse inaridirsi, a quel punto sarebbero davvero problemi per tutti.

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LAPRESSE A rischio. Le linee di Fca a Melfi che producono la Jeep Renegade per il mercato Usa potrebbero subire dei contraccol­pi qualora l’amministra­zione Trump alzasse le tariffe sulle importazio­ni di auto

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