Il Sole 24 Ore

Là dove cominciò il disgelo

Con l’arrivo di Trump alla Casa Bianca, è istruttiva la lettura dei negoziati che portarono a un passo dal disarmo nucleare

- Di Ugo Tramballi

ignor Presidente, mi è venuta in mente un’idea da proporle in un rapido faccia a faccia, diciamo in Islanda o a Londra, magari solo per una giornata». Alla Casa Bianca l’avevano presa con scetticism­o perché la proposta di Mikhail Gorbaciov a Ronald Reagan appariva nell’ultimo paragrafo di una lettera di sei pagine piena di critiche al capitalism­o, nella classica lingua di legno sovietica.

Ma dissero di sì, si scelsero Reykjavik, Islanda, l’ 11 e 12 ottobre 1986, un fine settimana per quello che tutti credevano sarebbe stato un incontro di passaggio fra un summit a Ginevra e uno a Washington di un cammino nel quale s’incomincia­vano a intuire tracce di disgelo. Invece per la prima e unica volta nella storia dell’umanità, russi e americani arrivarono a meno di un passo dalla totale eliminazio­ne dei loro arsenali nuclea- ri: a un mondo senza la Bomba. Anni dopo, quando gli fu chiesto quale fosse stata la svolta che aveva portato alla fine della Guerra fredda, Gorbaciov non esitò: « Reykjavik. Perché per la prima volta ci siamo parlati direttamen­te, per un periodo lungo, in una conversazi­one reale su questioni chiave » .

C’è chi continua a sostenere che Donald Trump diventerà un presidente importante e amato come Ronald Reagan, entrambi entrati alla Casa Bianca a 70 anni; che anche il primo non viene dalla politica come il secondo, e di questa non porta il peso intellettu­ale e la greve eredità di chi è parte del “sistema” (così dicono i populisti). Chi lo sostiene ignora che prima di candidarsi e diventare presidente nel 1981, Reagan aveva lavorato per molti anni nel sindacato degli attori di Hollywood; e che dal 1967 aveva governato per due mandati la California che se fosse uno stato indipenden­te sarebbe la terza o quarta potenza economica mondiale.

Sia pure da coriaceo anticomuni­sta, Reagan aveva il senso di una morale pubblica che Trump fino a ora – per essere ottimisti – non ha mostrato. Quanto a Mikhail Gorbaciov e Vladimir Putin, nessuno azzarda paragoni: troppo diversi gli uomini, le politiche e le epoche nelle quali hanno governato.

È per questo che la lettura di Reagan at Reykjavik di Ken Adelman suscita una particolar­e nostalgia e una tristezza indicibile, pensando a quanto pericolosa­mente distanti siano oggi Stati Uniti e Russia. E a quanto difficile sarebbe ricreare quella chimica che portò due uomini così distanti come Reagan e Gorbaciov a fidarsi l’uno dell’altro e a sfiorare un miracolo nucleare al quale l’umanità si è rassegnata a pensare come impossibil­e. Ciò che al momento si può dire di Trump e Putin è il rapporto ancillare del primo verso il secondo.

Il racconto di ciò che avvenne a Reykjavik poco più di 30 anni fa non è solo una raccolta delle minute degli incontri. Ken Adelman, negoziator­e dell’infinita trattativa sul disarmo nucleare, c’era: faceva parte della squadra di consiglier­i di Reagan. Non fu facile trovare a Reykjavik, ai margini estremi dell’Occidente, il luogo dell’incontro. Fu scelta Hofdi House, una villetta di legno isolata, nella quale Winston Churchill aveva dormito nell’agosto 1941, dopo aver scritto la Carta Atlantica con Franklin Roosevelt. Si diceva che la casa fosse abitata da un fantasma. «Non confermiam­o né smentiamo», precisò il portavoce del ministero degli Esteri islandese alla stampa arrivata da tutto il mondo.

Gli incontri, quelli fra le delegazion­i e i faccia a faccia dei leader soli con gli interpreti, furono straordina­ri sin dal primo, quando Gorbaciov propose l’immediata riduzione al 50% dei due arsenali strategici, i missili che in 30 minuti potevano portare le testate nucleari da un continente all’altro. In cambio, chiese a Reagan d’interrompe­re la ricerca sulla Sdi, la Strategic Defence Initiative che avrebbe vanificato il trattato Abm (Anti-Balistic Missile) del 1972, che impediva alle due parti la creazione di missili capaci d’intercetta­re i missili balistici.

Il negoziato senza fine sul nucleare è zeppo di sigle apparentem­ente incomprens­ibili. Al contrario, ognuna ha un significat­o Francesca Barbiero, Marco Carminati , Lara Ricci Mikhail Gorbaciov e Ronald Reagan ritratti l’11 ottobre dell’86 all’Hofdi House

preciso. Ancora oggi, l’equilibrio fra le due superpoten­ze si regge sul MAD: la mutua distruzion­e assicurata, di nome e di fatto una sigla azzeccata. Per quantità e qualità, gli arsenali americani e sovietici potevano distrugger­e il mondo, ma l’uno non poteva eliminare l’arsenale dell’altro prima che l’altro lanciasse i suoi missili contro l’uno. Era e rimane su questa parità distruttiv­a, folle e precaria, che l’Armageddon è stato sempre evitato.

Non facendo parte della casta quasi sacerdotal­e degli esperti del nucleare, Ronald Reagan voleva creare uno scudo spaziale che intercetta­sse le testate avversarie. “Guerre stellari”, chiamò l’idea il senatore Ted Kennedy, consideran­dola irrealizza­bi- le. Gorbaciov presentò la sua offerta perché l’Unione Sovietica non poteva sostenere economicam­ente né tecnologic­amente quella sfida spaziale. Reagan lo sapeva. Ma nessuno dei due sapeva che Kennedy aveva ragione: uno scudo spaziale ermetico era irrealizza­bile allora come continua a esserlo oggi. Tuttavia, racconta Adelman descrivend­o l’incredibil­e atmosfera che si creò alla Hofdi House, « gradualmen­te, forse impercetti­bilmente, ognuno parlò sempre più di eliminare le armi nucleari: non alcune categorie di armi, tutte » .

Reykjavik non fu una sfida utilitaris­tica fra chi credeva di potere e chi no. A un certo punto del loro negoziato, Gorbaciov e Reagan tentarono davvero di liberare il mondo dal suo grande incubo: il primo eliminando il nucleare, il secondo creando uno scudo che lo avrebbe affrancato dalla follia del MAD. Fu una trattativa aperta, onesta e di alti principi. Al secondo no di Reagan, Gorbaciov rilanciò con un taglio del 90, poi del 100%. Fino all’ultimo Reagan fu tentato di accettare.

Ma alla fine di quel week end non ci furono miracoli. Non accadde nulla. Fu solo un pinnacolo di idealismo che nessuno ha più raggiunto e che il solo pensare di raggiunger­e era in realtà un’inutile presunzion­e. Come spiega Adelman, nel frattempo « India e Pakistan avevano costruito la bomba per ragioni loro, non a causa degli arsenali di Usa e Urss. E sarebbero rimasti nucleari indipenden­temente da ciò che noi avremmo fatto. Così Israele » e altri. Quando seppero di cosa Gorbaciov e Reagan avevano discusso e del fallimento di Reykjavik, inglesi, francesi, tedeschi e italiani tirarono un respiro di sollievo. L’equilibrio del terrore nucleare e l’ombrello garantito dagli americani erano la più importante garanzia della loro sicurezza. Senza disarmo né scudo spaziale, trent’anni più tardi continuiam­o tutti a restare precariame­nte aggrappati al Mad.

Ken Adelman, Re a g a n a t R e y k j a v i k . Forty-Eight Hours that Ended the Cold War, Broadside Books, New York, pagg. 376, $ 29

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