Figlio del piacere di leggere
Élie Mougnaud è un bambino esile e smanioso, con il nome di un eroe letterario amatissimo dalla madre. È il protagonista di «un’altra vita minuscola» qui pubblicata per la prima volta
lie Mougnaud, di Redondessagne, fu figlio del piacere. La cronaca non dice se il piacere fu quello che provarono Louise e Denis Mougnaud nell’unirsi in modo che fosse concepito Élie Mougnaud. Ma la cronaca sa che il bambino fu chiamato, e in qualche modo destinato, in ricordo del piacere che aveva provato Louise Mougnaud, la madre, nel leggere un romanzo il cui eroe portava con eleganza lo stesso nome, Élie.
Tutto questo – la lettura, il piacere e il nome glorioso – avviene negli anni Venti di questo secolo, a Redondessagne, gibboso villaggio sul versante nord, marcio di rovi e di boschi nani su marci graniti, del monte Jouër. È qui che Élie scende dal cielo. Non è Elia il profeta, lo sgominatore di Acab, l’uomo di Dio, cioè di parole e di violenza, colui che nutrono i corvi e che in cambio nutre i corvi della carne di cinquecento sacerdoti di Baal scannati, nella forra di Kison: no, quello Louise non lo conosce, non si leggono le Sacre Scritture in quel paese rosso, solo qualche romanzo. Quindi è più probabile che sia di Élie di Nonsocosa, un bell’aristocratico afflitto ma appagato, che in un romanzo mondano alla Paul Bourget si porta addosso monocolo, ghette bianche e malinconia; e quel nome eroico è caduto dal cielo, cioè dai libri, nel grembo della moglie di un mangiatore di castagne che si sfianca per far crescere tra i cespugli di rovi un fazzoletto di grano, piegato dal vento del nord e gelato nei primi raggi di sole fino a maggio. Quel nome le è entrato nel cuore e ne è uscito in forma di bambino. Lui esiste e cresce sulla cattiva terra con quel nome in ghette bianche – e con un cognome che pure è denso di significato; un significato lieve e aereo: perché mougnaud, nel loro dialetto, è il passero.
La cronaca tace sugli anni della sua prima infanzia.
Ritrova la parola con gli anni della scuola. Perché si dà il caso che lui vada a scuola a Chatelus; e che per andare a Chatelus, di sentiero in sentiero, si debba passare dal versante sud del monte Jouër, dove a un crocevia si trova la frazione di Les Cards; e che allora a Les Cards mia madre, che ha cinque o sei anni di più e frequenta come lui la scuola di Chatelus, aspetti il piccolo Élie per fare la strada insieme, nei mattini bui come nei mattini chiari. Qui l a cronaca ha dunque i tratti di mia madre. Il bambino, lei dice, è per natura raggelato, esile, smanioso. Soprattutto, quando nei mattini chiari lei lo aspetta nel prato sul retro, non vede arrivare giù per il sentiero solo la piccola figura con la cartella, solitaria e ardita; no, lo vede arrivare sotto la grande ombra amorevole e nera della madre – nera perché all’epoca le contadine sposate vestivano di nero –, la mano in quella della madre, le invisibili ghette bianche sopra gli zoccoli, saltellante ed esile: sì, Louise lo accompagna fin lì, estate e inverno. Le fa piacere, un piacere amoroso. E lui, non appena vede la ragazza, forse prima, forse sin quando partono da Redondessagne che è a quattro chilometri buoni di ripida salita, lui dice qualcosa a sua madre, poche parole rapide e sommesse, con la testa girata e l’occhio di traverso; mia madre non le capisce. Ma se è il mattino buio e mia madre, imbacuccata, è nascosta e invisibile nel prato sul retro, sente nel buio i quattro zoccoli, madre e figlio, e quando si avvicinano sente anche quello che il bambino caparbiamente ripete, con voce sommessa e timorosa, implorante. Dice: «Mamma, lasciami. Lasciami, mamma». E già lo dice con il tono che ha sempre avuto e che mi è noto, l’eloquio giaculatorio e ardente, il tono fra preghiera e ripulsa, con le parole precipitose che crepitano come sassolini scagliati lontano. La madre affida il suo eroe da romanzo alla ragazza, sorride, dice qualche parola affabile. Se ne va, e a volte il bambino piange. La ragazza gli prende la manina calda, senza una parola eccoli a scuola.
A scuola c’è di sicuro una complicazione, tanto ovvia che mia madre non ne parla: ai bambini viene subito spontaneo chiamarlo Lili, che è un nome un po’ da femmina, un nome più da gonnellina bianca che da ghette – lo fanno non di proposito né per cattiveria, solo perché i diminutivi si usano e non ce n’è uno specifico per Élie; prendono insomma quello che c’è e che già ha funzionato per le bambine, Élise o Julie. Lili. Ben presto tutti lo chiamano così. Tutti fuorché sua madre.
Passa parecchio tempo durante il quale lui si barcamena con tre nomi: quello di suo cugino il passero; il nome glorioso che esce solo dalla bocca della madre, il nome caduto dal cielo, il nome del profeta; e il nomignolo che gli danno tutti, che non ha nemmeno un sesso e che è come il cinguettio di un passero. Élie Mougnaud. Poi la cronaca sono io. Sento quel nome nella mia infanzia. È il nome di una reputazione. Circola con grande scalpore, eppure è carico di sudore e di fatica. A sentirlo ti figuri una bambina e un passero, eppure sempre si accompagna a gesta di eccessiva virilità. Lo pronunciano (mio nonno, i suoi accoliti) con un misto di stupore, beffarda ammirazione e vaga pietà. È il nome di chi si sfinisce e non ha i mezzi per sfinirsi, una mezza calzetta che aspira alle fatiche di Ercole e di cui, anno dopo anno, si aspetta il crollo – che miracolosamente non avviene e che si rinvia all’anno successivo. Si parla di una figura alta ed esile che dall’alba al tramonto va su e giù per il monte Jouër. Si parla di carri rientrati alle tre del mattino alla luce delle lanterne; di buoi crollati sotto il carico notturno; di animali esotici comprati a caro prezzo, polli di Bresse e maiali di Craon, specie sibaritiche, ridotte a farsi le ossa con i tre pugni di grano saraceno del campicello di Élie Mougnaud; ma si parla anche di altri poderi comprati qua e là, a Redondessagne, a Séjoux, a Beaumont, a Millemilanges, lavoro per dieci colossi, e si dice che l’esile figura si moltiplichi per dieci, faccia salti colossali da Redondessagne a Séjoux, dal forno al mulino («Che razza di camminatore quel povero Lili!» dice ridendo mio nonno). Si dice che fra quelle particelle dissodi le siepi, semini per bene a cereali i graniti del versante nord. Si parla delle decine di vomeri scassati. Eppure il grano viene su e i polli di Bresse crescono. Compra e libera dai rovi il versante ovest, punta al versante sud. E poi, dopo una fatica d’Ercole particolarmente rischiosa – come il leone di Nemea, diciamo – che è forse in questo caso l’acquisto di un toro del Charolais bianco premiato o di uno di quei primi trattori americani a torretta con il tubo di scarico appollaiato in alto che fanno pensare a una mantide religiosa e a un carro armato, dopo quell’exploit nessuno più si aspetta il cedimento e tanto meno il crollo: tutti se ne fanno una ragione, ci credono. Ma continuano a ridere un po’.
Il bambino che sono non capisce proprio perché.
| Barbara Ferris in «A nice girl like me» di Desmond Davis (1969)