Il Sole 24 Ore

Figlio del piacere di leggere

Élie Mougnaud è un bambino esile e smanioso, con il nome di un eroe letterario amatissimo dalla madre. È il protagonis­ta di «un’altra vita minuscola» qui pubblicata per la prima volta

- Di Pierre Michon

lie Mougnaud, di Redondessa­gne, fu figlio del piacere. La cronaca non dice se il piacere fu quello che provarono Louise e Denis Mougnaud nell’unirsi in modo che fosse concepito Élie Mougnaud. Ma la cronaca sa che il bambino fu chiamato, e in qualche modo destinato, in ricordo del piacere che aveva provato Louise Mougnaud, la madre, nel leggere un romanzo il cui eroe portava con eleganza lo stesso nome, Élie.

Tutto questo – la lettura, il piacere e il nome glorioso – avviene negli anni Venti di questo secolo, a Redondessa­gne, gibboso villaggio sul versante nord, marcio di rovi e di boschi nani su marci graniti, del monte Jouër. È qui che Élie scende dal cielo. Non è Elia il profeta, lo sgominator­e di Acab, l’uomo di Dio, cioè di parole e di violenza, colui che nutrono i corvi e che in cambio nutre i corvi della carne di cinquecent­o sacerdoti di Baal scannati, nella forra di Kison: no, quello Louise non lo conosce, non si leggono le Sacre Scritture in quel paese rosso, solo qualche romanzo. Quindi è più probabile che sia di Élie di Nonsocosa, un bell’aristocrat­ico afflitto ma appagato, che in un romanzo mondano alla Paul Bourget si porta addosso monocolo, ghette bianche e malinconia; e quel nome eroico è caduto dal cielo, cioè dai libri, nel grembo della moglie di un mangiatore di castagne che si sfianca per far crescere tra i cespugli di rovi un fazzoletto di grano, piegato dal vento del nord e gelato nei primi raggi di sole fino a maggio. Quel nome le è entrato nel cuore e ne è uscito in forma di bambino. Lui esiste e cresce sulla cattiva terra con quel nome in ghette bianche – e con un cognome che pure è denso di significat­o; un significat­o lieve e aereo: perché mougnaud, nel loro dialetto, è il passero.

La cronaca tace sugli anni della sua prima infanzia.

Ritrova la parola con gli anni della scuola. Perché si dà il caso che lui vada a scuola a Chatelus; e che per andare a Chatelus, di sentiero in sentiero, si debba passare dal versante sud del monte Jouër, dove a un crocevia si trova la frazione di Les Cards; e che allora a Les Cards mia madre, che ha cinque o sei anni di più e frequenta come lui la scuola di Chatelus, aspetti il piccolo Élie per fare la strada insieme, nei mattini bui come nei mattini chiari. Qui l a cronaca ha dunque i tratti di mia madre. Il bambino, lei dice, è per natura raggelato, esile, smanioso. Soprattutt­o, quando nei mattini chiari lei lo aspetta nel prato sul retro, non vede arrivare giù per il sentiero solo la piccola figura con la cartella, solitaria e ardita; no, lo vede arrivare sotto la grande ombra amorevole e nera della madre – nera perché all’epoca le contadine sposate vestivano di nero –, la mano in quella della madre, le invisibili ghette bianche sopra gli zoccoli, saltellant­e ed esile: sì, Louise lo accompagna fin lì, estate e inverno. Le fa piacere, un piacere amoroso. E lui, non appena vede la ragazza, forse prima, forse sin quando partono da Redondessa­gne che è a quattro chilometri buoni di ripida salita, lui dice qualcosa a sua madre, poche parole rapide e sommesse, con la testa girata e l’occhio di traverso; mia madre non le capisce. Ma se è il mattino buio e mia madre, imbacuccat­a, è nascosta e invisibile nel prato sul retro, sente nel buio i quattro zoccoli, madre e figlio, e quando si avvicinano sente anche quello che il bambino caparbiame­nte ripete, con voce sommessa e timorosa, implorante. Dice: «Mamma, lasciami. Lasciami, mamma». E già lo dice con il tono che ha sempre avuto e che mi è noto, l’eloquio giaculator­io e ardente, il tono fra preghiera e ripulsa, con le parole precipitos­e che crepitano come sassolini scagliati lontano. La madre affida il suo eroe da romanzo alla ragazza, sorride, dice qualche parola affabile. Se ne va, e a volte il bambino piange. La ragazza gli prende la manina calda, senza una parola eccoli a scuola.

A scuola c’è di sicuro una complicazi­one, tanto ovvia che mia madre non ne parla: ai bambini viene subito spontaneo chiamarlo Lili, che è un nome un po’ da femmina, un nome più da gonnellina bianca che da ghette – lo fanno non di proposito né per cattiveria, solo perché i diminutivi si usano e non ce n’è uno specifico per Élie; prendono insomma quello che c’è e che già ha funzionato per le bambine, Élise o Julie. Lili. Ben presto tutti lo chiamano così. Tutti fuorché sua madre.

Passa parecchio tempo durante il quale lui si barcamena con tre nomi: quello di suo cugino il passero; il nome glorioso che esce solo dalla bocca della madre, il nome caduto dal cielo, il nome del profeta; e il nomignolo che gli danno tutti, che non ha nemmeno un sesso e che è come il cinguettio di un passero. Élie Mougnaud. Poi la cronaca sono io. Sento quel nome nella mia infanzia. È il nome di una reputazion­e. Circola con grande scalpore, eppure è carico di sudore e di fatica. A sentirlo ti figuri una bambina e un passero, eppure sempre si accompagna a gesta di eccessiva virilità. Lo pronuncian­o (mio nonno, i suoi accoliti) con un misto di stupore, beffarda ammirazion­e e vaga pietà. È il nome di chi si sfinisce e non ha i mezzi per sfinirsi, una mezza calzetta che aspira alle fatiche di Ercole e di cui, anno dopo anno, si aspetta il crollo – che miracolosa­mente non avviene e che si rinvia all’anno successivo. Si parla di una figura alta ed esile che dall’alba al tramonto va su e giù per il monte Jouër. Si parla di carri rientrati alle tre del mattino alla luce delle lanterne; di buoi crollati sotto il carico notturno; di animali esotici comprati a caro prezzo, polli di Bresse e maiali di Craon, specie sibaritich­e, ridotte a farsi le ossa con i tre pugni di grano saraceno del campicello di Élie Mougnaud; ma si parla anche di altri poderi comprati qua e là, a Redondessa­gne, a Séjoux, a Beaumont, a Millemilan­ges, lavoro per dieci colossi, e si dice che l’esile figura si moltiplich­i per dieci, faccia salti colossali da Redondessa­gne a Séjoux, dal forno al mulino («Che razza di camminator­e quel povero Lili!» dice ridendo mio nonno). Si dice che fra quelle particelle dissodi le siepi, semini per bene a cereali i graniti del versante nord. Si parla delle decine di vomeri scassati. Eppure il grano viene su e i polli di Bresse crescono. Compra e libera dai rovi il versante ovest, punta al versante sud. E poi, dopo una fatica d’Ercole particolar­mente rischiosa – come il leone di Nemea, diciamo – che è forse in questo caso l’acquisto di un toro del Charolais bianco premiato o di uno di quei primi trattori americani a torretta con il tubo di scarico appollaiat­o in alto che fanno pensare a una mantide religiosa e a un carro armato, dopo quell’exploit nessuno più si aspetta il cedimento e tanto meno il crollo: tutti se ne fanno una ragione, ci credono. Ma continuano a ridere un po’.

Il bambino che sono non capisce proprio perché.

| Barbara Ferris in «A nice girl like me» di Desmond Davis (1969)

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