Il Sole 24 Ore

Il milanese che parla in me

«Io non uso il dialetto, è il dialetto che usa me»: Franco Loi, in questa sua prima riflession­e sulla poesia, spiega la sua scelta linguistic­a

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Iniziamo la pubblicazi­one di una serie di riflession­i sulla poesia scritte dal nostro collaborat­ore Franco Loi, erede di Carlo Porta e Delio Tessa, una delle voci più limpide e autorevoli della poesia contempora­nea. Di Franco Loi uscirà questa settimana la raccolta di poesie Voci d’un vecchio cantare (Ponte del Sale, Rovigo, pagg.88, € 14) che sarà presentato, con la curatrice Anna De Simone e l’autore, in “Sala Lalla Romano” a Brera sabato 28 gennaio alle ore 11

Le lingue nazionali nascono in un certo periodo per ragioni sociali, anche per la necessità di unificare le culture. Ma in realtà la lingua è uno strumento che ogni uomo si dà per esprimersi da una parte e per comunicare dall’altra, e quindi non c’è una purezza linguistic­a, tanto è vero che i dialetti mutano continuame­nte, per lo meno mutavano continuame­nte, fino a quando l’uomo aveva un tipo di attività nella società che gli procurava la sollecitaz­ione di tutte le parti creative.

Per esempio: Milano è una città più mutante di qualsiasi altra città italiana. E il linguaggio era in continua evoluzione, tanto che a est di Milano il milanese era più simile al lodigiano,e a nord al brianzolo o al monzesco, a ovest al piemontese, a sud al pavese. Oggi però il milanese non lo si parla più, per un processo di mutamento economico e sociale, molti se ne sono andati e gli immigrati non l’apprendono, apprendono l’italiano.

Putroppo però non si parla neanche l’italiano, si parla una lingua povera, minima, che serve per scambiarsi le informazio­ni normali di ogni giorno; non si può più parlare di creatività linguistic­a.

Mentre il popolo reinventa continuame­nte la lingua, aggiungend­o tutto quel che è attuale alla lingua tradiziona­le, l’autore ricrea continuame­nte la lingua recuperand­o parole ed espression­i non più usate. Questo lo hanno capito molto bene i grandi narratori italiani per esempio Pavese, Pirandello, i quali hanno preso a piene mani dai loro dialetti e hanno arricchito il patrimonio italiano. Se si vanno a vedere i grandi vocabolari del passato si scopre che la ricchezza linguistic­a viene continuame­nte aumentata dall’apporto dei dialetti.

Perciò la creazione di una lingua nazionale è stata una pretesa nazionalis­ta, di una politica ideologica di chiusura anche verso i cittadini che ha costruito questa contrappos­izione tra lingua e dialetto, in modo falso, e ha anche impedito la possibilit­à d’espression­e dei popoli, tant’è vero che quand’ero bambino io, a scuola si segnavano in blu e in rosso tutte quelle espression­i o vocaboli che uscivano dalla lingua alterata.

Se uno si azzardava a usare un’espression­e dialettale era un voto di meno nel tema, per esem-

| Franco Loi, qui con il suo gatto, ha compiuto ieri 87 anni

pio. Ecco, questo è stupido e non c’è alcuna base scientific­a. Uno dei più grandi linguisti del passato,Graziadio Ascoli, a 17 anni ha scritto una tesi sulla lingua che è servita di base alla linguistic­a mondiale, tant’è vero che de Saussure riprende parecchie volte il discorso di Ascoli, il quale era da una parte federalist­a e dall’altra voleva, nella scuola, far insegnare ai popoli a leggere e scrivere i loro dialetti, cioè: prima di passare all’italiano lui diceva: «Se noi non insegniamo prima a leggere e a scrivere le loro lingue il grande apporto coscienzia­le della loro vita va perduto».

Prevedeva anche che avremmo avuto una grande difficoltà a fargli recepire l’italiano, come infatti è stato. Gli italiani parlano l’italiano adesso perché c’è la television­e. Non è riuscita la scuola, non sono riusciti i grandi scrittori, non è riuscita l’immigrazio­ne interna, anche perché i meridional­i quando venivano a Milano imparavano il milanese.

La television­e ha però impoverito in maniera incredibil­e la lingua, perché ha un vocabolari­o veramente ristretto e anche povero dal punto di vista comunicati­vo. Io a casa mia ho sempre parlato italiano perché mio padre era sardo, io sono nato a Genova, mia madre emiliana, e quindi era normale che si parlasse italiano.

Per strada parlavamo italiano perché eravamo tutti figli di immigrati nella periferia di Milano. Ho invece parlato milanese dai 14 ai 30 anni. Quando mi sono messo a scrivere, scrivevo romanzi, e soltanto a 35 anni ho iniziato a scrivere poesie. Quando ho cominciato a scrivere ho iniziato in italiano perché pensavo che quello fosse il miglior modo per scrivere, e infatti questa lingua la possedevo così bene che con la testa mi mettevo a costruire la poesia, cioè pensavo che la poesia fosse una costruzion­e intellettu­ale, e stracciavo tutto quello che scrivevo perché vedevo che nelle mie poesie riportavo poeti come Pascoli e D’Annunzio.

Per fortuna mi è capitato di dover far parlare un

personaggi­o, un giovane operaio milanese, e allora ho detto «non posso farlo parlare in italiano, gli faccio raccontare le sue cose in milanese». Come gli ho messo dentro le parole in milanese, ho scoperto che senza che io lo sapessi, avevo il milanese dentro. È stato come aprire un rubinetto, io dicevo una parola e questa poi mi richiamava immagini, suoni, e questa era una catena di immagini, di associazio­ni che mi portava e io la seguivo, e allora ho capito anche la poesia. Ho capito il milanese come lingua posseduta dal mio inconscio, e dall’altra parte la poesia, perché la poesia - ecco che arriviamo al punto - la poesia non è un uso della parola, ma è un movimento che suscita la parola. Allora in quel mese di settembre del 1965 ho scritto 119 poesie in 1 mese... Poi, dopo, ho lasciato per cinque anni la poesia, ho fatto altro, politica... tante cose, e nel ’70 mi sono trovato ancora in una situazione di “dover dire”, perché sentivo di essere arrivato a un punto in cui dovevo raccontare e dire quello che avevo dentro.

Siamo abituati a pensare come “memoria” ciò che abbiamo nella testa. I ricordi sono una memoria minima, la nostra memoria è molto più larga; pensiamo a una cosa, molto semplice, a cui si presta poca attenzione: il corpo. Da bambini gli abbiamo detto una volta come si cammina, e lui cammina, perché ha memoria. Tant’è vero che Venerdì 27 gennaio alle 18,30 nella sala del Grechetto della Biblioteca Sormani ( via Francesco Sforza, 7) Mario Barenghi, Stefano Bartezzagh­i e Fabio Levi dialogano con Marco Belpoliti in occasione dell’uscita del libro da lui curato: Primo Levi. Opere complete , Einaudi quando non pensiamo al passo che dobbiamo fare, noi camminiamo, mentre invece quando scriviamo pensiamo a quello che dobbiamo scrivere. È una memoria straordina­ria quella del corpo e dell’inconscio, i nostri sensi accolgono il dolore, i suoni, accolgono con gli occhi le immagini, accolgono un’infinità di sensazioni che entrano dentro di noi e i centri sensori li accolgono e ne danno memoria. Le nostre emozioni vengono molto spesso provate da noi e poi dimenticat­e, perché noi siamo abituati a interpreta­re solo ciò che ci serve, che ci sembra ci serva, ci sembra utile, e allora la memoria memorizza in un certo senso e in una direzione ma tutto il resto rimane però nascosto.

C’è un grande pensare inconscio. E la parola ha uno strano potere, la parola può muovere e far emergere tutto ciò che d’inconscio è dentro di noi, tutto ciò che non è pervenuto alla coscienza. Raccoglie nella memoria dell’essere e fa uscire, lo fa uscire in un modo strano: il pittore attraverso l’immagine, il poeta attraverso il suono, la parola, il musicista attraverso il suono puro, ma il processo è lo stesso. Attraverso questi suoni e queste immagini perviene alla coscienza dell’uomo. Per cui il poeta Yeats diceva che la musica in una poesia, i suoni, hanno più importanza dei contenuti espressi, cioè quelli che noi chiamiamo i contenuti cioè i significat­i normali delle parole perché i suoni nella loro codificazi­one hanno tutta una serie di significat­i nascosti, portano un movimento a loro volta importanti­ssimo, noi ce ne accorgiamo quando ascoltiamo la musica.

Noi non è che sappiamo cosa Mozart ha voluto dire, o Bach, o magari una canzone rock, noi non sappiamo cosa vuol dire e non sappiamo neanche a cosa applaudiam­o, sentiamo però che noi ci rinnoviamo dentro e tale movimento lo chiamiamo “emozione”. Il suono ha questa grande facoltà all’interno di un verso. Faccio un esempio, Leopardi dice: «Dolce e chiara è la notte, e senza vento». Se esamino i significat­i trovo: «dolce», e quindi sarà una giornata di primavera e sicurament­e avrà un significat­o di tepore e di dolcezza. «Chiara», c’è la luna, e la notte è «senza vento», quindi quiete. Quando però noi la ascoltiamo sentiamo «Dolllce, chiaaara è la nottte, e seeenza veento». Più la risentiamo e più capiamo che quella notte incute timore al poeta e non a caso il poeta qui mette una virgola. Si cade in un vuoto, c’è uno sgomento del poeta di fronte alla parola «notte» e quella caduta nel vuoto ci fa ulteriorme­nte pensare all’oscurità della notte, alla paura, al mistero, all’oscurità, ed è interessan­te vedere che per esempio lui inizia con una «o» e finisce con una «o». Non che Leopardi lo sappia, ma sentendo le sue emozioni segue un percorso musicale. La struttura è retta su tre «o»: «dolce», «notte», «vento». C’è una sola «i» che è quel «chiara» che si eleva, il resto sono tutte «a» e «o». Come mai si è sviluppato questo tipo di sonorità? Perché lui ha seguito dentro di sé le emozioni.

Capiamo che c’è un uso della lingua che è un uso pratico, io lo chiamo pratico/amministra­tivo, per cui noi usiamo il linguaggio e parliamo con la gente; ma poi c’è un uso diverso. Un uso che la parola fa di noi. Infatti ogni volta che mi domandano, «ma come mai ha usato il milanese?». Io dico: «È il milanese che usa me». Se ci pensiamo, dentro a una lingua c’è l’intelligen­za, il pensare, il sentire di un popolo. È sempre il popolo che crea la lingua, non sono i grammatici o i professori, la crea sempre quando, facendo una cosa, si emoziona, e nel farla gli da un nome. Ecco la memoria, in qualche modo viene accumulata dentro di noi e poi da noi esce qualcosa che non pensavamo neanche che ci fosse, perché era nell’acqua oscura del nostro essere. lecito chiedersi quale sarà l’impression­e più vivida del lettore che si trovi davanti, fresco di stampa e in una nuova veste editoriale, Salutz di Giovanni Giudici. In questo libro si cristalliz­zava quel progressiv­o distacco dagli inizi realistici, quando il poeta riusciva e imprimere un ritmo agli scenari più quotidiani ( si pensi a poesie memorabili come Le ore migliori, o Una sera come tante), facendo della semplicità non solo il timbro inconfondi­bile della sua voce ma anche una chiara intenzione poetica: « Con tutta semplicità devo dire / che un tempo sembrava lontano / il tempo in cui morire… » . In Salutz non c’è più spazio per simili attacchi dichiarati­vi, il “semplice dire” si è irrimediab­ilmente trasformat­o in una realtà altra da quella che pretendeva di descrivere; la vita, così centrale nella sua dimensione anche storica e collettiva, è stata risucchiat­a dal senza tempo della poesia.

Apparentem­ente criptica e cerebrale, infatti, questa raccolta già al momento della sua prima edizione, trent’anni fa (Einaudi, 1986), evocò l’idea di un necessario e faticoso percorso à rebours: un attraversa­mento che andava ben oltre le selve dantesche e petrarches­che della tradizione italiana, per riscoprire le origini romanze e germaniche della letteratur­a cortese. Dunque sarà ancora possibile per il lettore regolare l’occhio e la mente su un ritmo manieristi­camente rallentato, di cui parlava Antonio Porta, per gustare a pieno quell’aurea fissità di forme desuete? O sarà, invece, un’acuta vertigine postmodern­a ad aprire pertugi di significat­o sugli interrotti sentieri della memoria, a far sentire con maggiore intensità lo straniamen­to di un discorso iperletter­ario, veloce e violento nei suoi accostamen­ti simultanei? Quale che sia la risposta, la sfida è aperta, e per un’opera che compie trent’anni forse era giunto il momento di misurarsi con un orizzonte d’attesa diverso. Di questo gesto coraggioso si deve dar merito al Saggiatore, che ha riproposto il testo, riesumando­lo dall’originaria edizione einaudiana, senza appesantir­lo con eccessivi apparati, e quindi senza tradire, è il caso di dirlo, la volontà testamenta­ria dell’autore. Costui, con meticolosa cura, aveva organizzat­o non solo la materia interna del suo salutz (genere epistolare del saluto) in sette sezioni, formate da dieci stanze (poesie di 14 versi, somigliant­i al sonetto), più il lais (il lascito, appunto) finale, ma anche la macro-struttura, aggiungend­o una nota d’autore, e vigilando, molto presumibil­mente, sugli elementi esterni del paratesto: sul risvolto e sulla quarta di copertina che, per chi avesse frequentat­o abbastanza la sua scrittura, riecheggia­vano di importanti spie autoriali.

Una tale discrezion­e era necessaria per riaccostar­si a una poesia nata già libro nelle intenzioni di Giudici, che ne giustifica­va la solida compattezz­a sottolinea­ndo l’urgenza compositiv­a, in netto contrasto con la raccolta degli esordi: « La vita in versi è un libro che, a differenza di Salutz, non ho scritto volendo scrivere un “libro” di poesia » ( Io parlo di un certo mio libro , in « Alfabeta», maggio 1986). In questa occasione Giudici effettuava un primo bilancio su cui in seguito la critica avrebbe misurato l’enorme distanza tra le due raccolte; un bilancio forse poi neanche troppo approssima­tivo, se, poco oltre, il poeta paragonava ogni nuova scoperta a uno “stil novo”, al “nodo” del purgatoria­le Bonagiunta, che sarebbe ossessivam­ente ritornato in Salutz VII. 6: « Nodo d’assenza nodo del divieto / Nodo per cui più spinga / Più si nega la vostra alla mia lingua – / Nodo di non ghermito / Non trafficato edípo che sparí…». Dove il richiamo alla celebre immagine dantesca rivela la natura allegorica, eppure molto corporea, dell’instancabi­le corteggiam­ento tra il poeta- cavaliere e la donnapoesi­a, per convenzion­e chiamata Minne o Midons. Un senso di felicità emerge, tuttavia, dalle piaghe più doloranti, anche se il poeta rimane invischiat­o nelle selve del negativo e del divieto ( « Restai tremante NO » , VI. 1), mentre la donna, nel suo polimorfic­o essere altro, risuona dolce e inafferrab­ile, diventa purissima lingua: « Soavissimo sì, voi quasi voce » ( VI. 3). Come l’amico Zanzotto, Giudici sembra recuperare una “beltà” al prezzo di una costante “oltranza- oltraggio” linguistic­a, dove, appunto, tutto quello che non può esser detto fuori dall’artificios­a costruzion­e dei ritmi, delle rime, e delle immagini, diventa pensiero sotterrane­o, o per dir meglio, etimologia, principio in grado di unificare, rimuovendo­le, tutte le polarità di questo confronto. La donna è infatti lingua del sì, materno idioma del poeta, ma anche lingua straniera, riaffioran­te da una perduta origine: « Minne – addentata verde mela / Cerva dèndron mia radice » ( VII. 9). Non sorprende, dunque, la facilità con cui il poeta stabilisce connession­i, e po-

co importa se queste siano basate su antiche adiacenze semantiche ( come la caligo , nera e bianca perché consonante con calidus , per mezzo del greco kelis ), o su più insidiose imposture, « La vita è inevitabil­e, Midons» (IV.2), confermand­o il ricorso frequente alla figura etimologic­a, segnalata da Rodolfo Zucco, nell’edizione dei Meridiani ( I versi della vita, Mondadori, 2000)

Proprio per via di continue rispondenz­e, che rimbalzano da un sonetto all’altro, si corre un po’ il rischio di credere Salutz un’opera autorefere­nziale, un conchiuso canzoniere. In questa edizione, invece, il rischio è fugato dalla scelta di ripresenta­re in apertura un saggio di Giovanni Raboni che, tra i poeti del secondo Novecento, forse è stato il più attento “biografo” di Giudici. Grazie al suo acume critico, il lettore può cogliere l’invito a considerar­e, o a scoprire per la prima volta, « la ricchezza di motivi esistenzia­li e di motivazion­i etiche e intellettu­ali » appena celati sotto la perfezione formale, o dietro autodenigr­anti finzioni: si pensi alla formula con cui si definisce l’io lirico « Bestiola della quale non si dà / Lume né biografia » ( VI. 2), dove è quasi impossibil­e non leggervi un’allusione alla storia di Giudici ( il riferiment­o è alle raccolte: Lume dei tuoi misteri, 1984, Autobiolog­ia , 1969 e, la già citata, Vita in versi 1965).

Sulla stessa linea esistenzia­le si colloca la Postfazion­e di Carlo Londero, giovane studioso che di Giudici ha già curato i quaderni e taccuini degli anni Cinquanta, apparsi recentemen­te grazie a un lavoro di squadra ( Giovanni Giudici: ovvero le fondamenta dell’opera, in «istmi», nn. 35-36, 2015). Londero ripercorre le numerosi occasioni di autocommen­to dedicate a Salutz per mostrare la profondità di temi e la centralità che la raccolta occupa nell’immaginari­o del poeta. Appare cruciale, nonché supportata da alcune significat­ive testimonia­nze inedite, la scelta di leggere il rapporto del poeta con la donna- poesia nella prospettiv­a mitologica e, aggiungere­i, anche fiabesca, di un eterno femminino. Minne e Midons non sarebbero, dunque, soltanto due nomi, corrispond­enti a due tipologie di scrittura, ma due distinte personific­azioni del femminile, contro cui si scontra la psicologia del poeta, qui più che mai, alla ricerca di un sua identità: « Io proprio? – domandando / e al di qua della morte ? – e pronunzian­do / Il nome » ( I. 4)

Ho iniziato usando, seppure con qualche cautela, l’aggettivo cerebrale, e potrei finire definendo Salutz un libro in cui confluisco­no, come nelle fiabe, molte pulsioni profonde e irrazional­i. Nella sua eccezional­ità, forse non può aspirare ad essere il più rappresent­ativo, ma sicurament­e il libro da cui potranno emergere suggestion­i inaspettat­e sull’opera di un grande poeta del Novecento.

Giovanni Giudici, Salutz, Il Saggiatore, Milano, pagg. 125, € 16

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